Ferrara – Zikaron Basalon
“Salva grazie al re di Bulgaria”

Screen Shot 2018-05-17 at 13.55.52I suoi ricordi, Jose Romano Levy Bonfiglioli li ha raccolti in un affettuoso libriccino che ha scritto per i nipoti e che non manderà mai alle stampe. Intanto, però, almeno per una mattinata, a quelle pagine hanno potuto accedere anche gli alunni della III A e della III H della Scuola Media “Dante Alighieri” di Ferrara. Nel salotto della signora Jose si è, infatti, svolto uno dei tre appuntamenti in contemporanea della tappa ferrarese di “Zikaron Ba Salon”, il progetto promosso dall’UCEI per portare le classi a diretto contatto con i testimoni della Shoah, nelle loro case. Dove le parole forse escono più facilmente, anche se ridanno corpo a storie dolorose, e restano più impresse che a leggerle o a sentirle dai professori.
Ciò che Jose racconta sono, in realtà, due vicende familiari, parallele e diversissime: la sua e quella del marito Geri. “Sono nata a Sofia nel novembre del ’37 e cresciuta in Bulgaria. Un piccolo Paese balcanico poco noto in Italia, anche se ai tempi dei fatti che sto per narrarvi la nostra regina era una principessa italiana, Giovanna di Savoia, figlia del re d’Italia e moglie del re Boris. La Bulgaria ha fatto parte dell’Impero Ottomano e, quando si è finalmente liberata dal dominio turco, si è data una costituzione estremamente liberale. Anche per questo, greco-ortodossi, ebrei, armeni e musulmani da noi vivevano in serenità e armonia, senza forme di razzismo. Talvolta ripenso con nostalgia a quel piccolo, semplice e tranquillo melting pot, in cui si parlavano tante lingue, i sapori e i profumi si mescolavano, le festività si moltiplicavano: c’erano il capodanno e la Pasqua ebraici, quelli greco-ortodossi, il Natale armeno e così via”.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, la Bulgaria, come l’Italia, si allea con la Germania di Hitler. “Ma per noi la vita non cambiò granché. Le leggi razziali di fatto non attecchirono, anche se sugli abiti cominciarono a comparire delle piccole stelle gialle e mio papà, in quanto ebreo, di tanto in tanto veniva chiamato ai lavori forzati”.
Nel ’43 Jose ha solo cinque anni, ma quel che accade in un giorno di marzo è ancora nitidamente davanti ai suoi occhi: “Stavo giocando con le amiche in giardino, a Plovdiv. La mamma ci teneva d’occhio e aveva in braccio mio fratello di cinque mesi, mentre papà era in casa. All’improvviso compare Kevork Asvasadourian, il socio armeno di mio padre e l’uomo più buono che abbia mai conosciuto. Tutto trafelato, prende noi due bambini e grida: “Non preoccupatevi: qualsiasi cosa vi succeda, li adotterò io”. Mentre lo ‘zio’ Kevork ci porta via di corsa, vedo arrivare dei militari in divisa, ma non mi spavento, perché non capisco. Penso solo che sto andando a casa Asvasadourian, dove sicuramente, come tante altre volte, trascorrerò una bellissima giornata con la ‘zia’ Vartig e i suoi due piccoli, che per me sono come dei fratellini. Verso sera sentiamo suonare il campanello: la mamma e il papà sono venuti a prenderci. A me sembra tutto normale, continuo a non capire. Solo diversi anni dopo verrò a sapere che i tedeschi avevano rastrellato tutti gli ebrei adulti e li avevano radunati nella scuola ebraica della città, per poi deportarli nei campi di concentramento in Germania. Ma nel tardo pomeriggio, il re Boris aveva fatto saltare i loro piani, dando l’ordine di liberare tutti, in ogni città del Paese. Insieme al Primo Ministro Dimitar Peshev e al Metropolita della Chiesa greco-ortodossa, era riuscito a fermare Hitler, salvando quarantottomila ebrei. Mi resi conto molto più tardi di essere stata testimone di un miracolo, quando ero già in Italia e cominciavano a uscire i primi filmati sui campi di concentramento e i libri di Primo Levi. Iniziai a fare delle domande a mio papà e lui mi disse che quel giorno di marzo, a metà mattina, nella scuola ebraica di Plovdiv era entrato il Pope della città, con la sua bella barba bianca, e aveva rassicurato i presenti con questa frase: “State tranquilli, non lascerò che portino via i miei ebrei”. Non smetterò mai di chiedermi come sarebbe oggi il mondo se in Europa ci fossero stati altri re, altri primi ministri, altre chiese e altri popoli come quelli che allora, in Bulgaria, assunsero una posizione ufficiale netta, contro il silenzio assordante della Santa Sede”.
E mentre a Plovdiv i Romano si salvarono, per i loro futuri parenti – i Bonfiglioli di Ferrara –, il peggio doveva ancora arrivare. “Mio marito Geri era l’ultimo nato di una famiglia di intellettuali benestanti, con una bella casa, un giardino dove giocare, tanti amici… Ma la promulgazione delle leggi razziali fece svanire tutto. Da un momento all’altro, gli altri bambini smisero di giocare con lui e si ritrovò solo e isolato. Un giorno, dai Bonfiglioli si presentò la polizia e prelevò il padre di Geri, Renzo, accusato di essere antifascista. Adorava i libri e la musica classica, e non aveva mai fatto del male a nessuno, ma fu rinchiuso in un campo nelle Marche, da cui uscì solo per motivi di salute. Tornato a casa, non fece nemmeno in tempo a curarsi, perché era già scattata una feroce caccia all’ebreo e bisognava nascondersi. Grazie a dei documenti falsi, la famiglia Bonfiglioli si trasferì in Toscana, in un’azienda agricola, ma anche quel rifugio divenne presto poco sicuro. Allora, come molti altri ebrei, Renzo decise di tentare di raggiungere la Svizzera, all’epoca l’unico paese neutrale, in un’Europa che sembrava impazzita, accecata dalle turpi teorie nazifasciste”.
Geri aveva 9 anni. Davvero pochi, per affrontare una fuga così pericolosa: “Si cercava di passare il confine di notte, inerpicandosi tra i boschi, lungo sentieri ripidi. Un incubo, specie per gli anziani e i bambini. Infatti la nonna di Geri restò indietro e venne catturata dai tedeschi, che la mandarono subito a morire in un lager. I Bonfiglioli rimasero in Svizzera parecchi mesi, fino alla fine della guerra. E nemmeno il ritorno a Ferrara fu facile: la loro casa era stata devastata e derubata, perché sia i nazisti che i repubblichini l’avevano usata come quartier generale. Ma soprattutto – e qui mi riferisco in particolare a mio cognato, Franco Schönheit, e a sua madre, Gina Finzi, tornati vivi rispettivamente da Buchenwald e da Ravensbruck –, malgrado l’accoglienza da parte degli amici rimasti, per i sopravvissuti non c’erano parole adeguate a spiegare che cosa avevano vissuto. E per chi li ritrovava, non c’era modo di comprendere. Davanti ai loro racconti, quando andava bene, i commenti erano spesso: “Sì, ti capisco, anche noi abbiamo patito la fame e il freddo”. Mentre nei casi peggiori, si rischiava di non essere creduti. Era stato tutto talmente abominevole, al di là di qualunque immaginazione e misura, che le cronache dai lager potevano sembrare il frutto di una mente malata. Solo Primo Levi riuscì a farsi capire, ma anche a lui ci volle molto tempo”.
In Bulgaria non esiste un corrispettivo del nostro 25 aprile, “ma il 9 settembre 1944 arrivò l’Armata Rossa. Ricordo una moltitudine di gente esaltata nelle piazze e i soldati che ci lanciavano dei cioccolatini. Ci sembrarono buonissimi, salvo poi scoprire che erano dei surrogati! Niente a che vedere con la mia prima, vera tavoletta di cioccolato, che gustai alla Motta di Corso Vercelli, a Milano”. È lì che Jose e la sua famiglia arrivano nel novembre 1948. “Prima come profughi, quindi come apolidi. A un certo punto, i miei decisero di prendere la nazionalità di un Paese sudamericano, ma durò poco: mio padre scoprì che, in base a una legge del ’24, gli ebrei sefarditi potevano richiedere la cittadinanza spagnola e così andò al Consolato e ce la fece ottenere. Col matrimonio, infine, sono diventata italiana. Naturalmente tutto questo è stato molto spiazzante anche sotto il profilo della lingua: quando nasci in una famiglia ebrea dell’Europa orientale, parli il bulgaro, lo spagnolo, l’ebraico, il turco e il francese. Fino al mio arrivo in Italia, a undici anni, conoscevo solo l’alfabeto cirillico e quello ebraico. Non a caso, in prima media, nel mio primo dettato (sulla Divina Commedia) riuscii a totalizzare centoventinove errori!”.
A Jose viene in mente “I cinque libri di Isacco Blumenfeld” dove, con grande ironia, Angel Wagenstein segue le vicissitudini di un sarto galiziano, incarnazione del destino dell’ebreo errante: vive ai confini della Polonia e suo malgrado, a causa della guerra, si ritrova un giorno polacco, un giorno tedesco, un giorno di un’altra nazionalità e lingua ancora, pur facendo sempre il sarto e sempre nella stessa casa. “Un po’ come me, che mi sono spesso chiesta: “Ma io che cosa sono?”. E ho concluso che la sola costante della mia vita è il mio essere ebrea. Lo dico senza rimpianti. Anzi, penso che ciò che ho vissuto sia servito a formarmi, a farmi superare i momenti peggiori”.

Daniela Modonesi

(17 maggio 2018)