Meis – Contando i giorni dell’Omer
La conta dell’Omer, la determinazione del tempo, la Cabbalà, le tradizioni, le ribellioni, i lutti. In un intreccio di testi sacri e leggende, dati storici e deduzioni dei maestri talmudisti, rav Luciano Meir Caro, rabbino capo della Comunità ebraica di Ferrara, ha tenuto ieri al MEIS un’avvincente lezione sulla Festa di Shavuòt. Che oltre ad essere ormai alle porte (inizia domani sera e si protrae fino a lunedì), è strettamente connessa, nelle sue implicazioni e significati, al percorso espositivo del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah sui primi mille anni di presenza ebraica in Italia.
“Il popolo ebraico ha un rapporto particolare con il tempo e i nostri libri fondamentali si aprono proprio con espressioni relative a questa dimensione. Una delle interpretazioni dell’incipit della Bibbia è: ‘Al principio delle cose’. E il Talmud, l’enciclopedia della legge orale, esordisce con la domanda: ‘Da che ora della sera si comincia a leggere le formule liturgiche?’. Su questo elemento, la Bibbia un po’ ci gioca e un po’ ci provoca. Nell’anno ebraico prevede tre ricorrenze, collegate a fatti storici e alla natura, in occasione delle quali l’ebreo, che anticamente si occupava soprattutto di agricoltura e di pastorizia, doveva recarsi a Gerusalemme a portare delle offerte. Ecco, quindi, Pèsach, la nostra Pasqua, la Festa della Primavera, che ricorda l’uscita dalla schiavitù egiziana; poi c’è Shavuòt, più enigmatica, detta anche Festa delle Settimane, perché arriva sette settimane dopo Pèsach, e Festa della Mietitura. Dal punto di vita agricolo, richiama il giorno delle primizie, malgrado in questa stagione, in Israele, di primizie non ce ne siano più. Infine c’è Sukkot, la Festa delle Capanne, che in autunno rievoca il raccolto finale, la vendemmia e, da una prospettiva storica, l’attraversamento del deserto del Sinai da parte degli ebrei, in cammino verso la terra promessa”.
Davanti al ‘giallo’ di Shavuòt, rav Caro passa sotto la lente il testo biblico, che non accenna né al significato religioso di questa festività, né a quando cada esattamente: “Ciò ha causato grosse controversie ideologiche, ma non stupisce: nell’ebraismo, le maggiori discussioni riguardano proprio la scansione del tempo, che originariamente non era stabilito da un calendario fisso, ma mese per mese, tenendo conto degli aspetti di carattere astronomico, delle esigenze materiali delle persone e di ciò che decidevano gli esperti”. La Bibbia dice: ‘Conterete dall’indomani del sabato sette settimane e il cinquantesimo giorno è la Festa di Shavuòt’. Ma come va intesa la frase ‘dall’indomani del sabato’? “Le interpretazioni divergono – spiega il rabbino –. Per l’ebraismo ortodosso ufficiale, il primo giorno della conta è il sabato, mentre gli ebrei neri Falashim, ad esempio, l’hanno sempre fatta partire dalla fine di Pèsach”.
E che cosa si fa nel primo giorno? Almeno su questo punto, la Torah sgombra il campo dalle ambiguità e descrive un cerimoniale di ‘agitazione dell’Omer’, dell’oggetto del sacrificio, che va scosso prima di essere offerto al Santuario di Gerusalemme. “Chiariamo che cos’è l’Omer: una misura che veniva usata per le granaglie, un contenitore della capienza di quattro, cinque chili. Nello specifico del testo biblico, apprendiamo che la sera del primo dei quarantanove giorni gli inviati di una commissione speciale giravano per i campi di granaglie, specie d’orzo (il primo cereale a maturare) e, prima di procedere alla mietitura, legavano insieme dei covoni di spighe, lasciandole ancora attaccate al terreno. Solo quando le mietevano, le raccoglievano nell’Omer e le presentavano al Santuario, quei cereali potevano essere consumati. Da quel momento partiva la conta dei giorni e, al quarantanovesimo, si sapeva che l’indomani era la Festa di Shavuòt”.
Alla mancanza di informazioni sul senso di questa ricorrenza hanno cercato di sopperire i maestri, domandandosi che cosa accadde sette settimane dopo l’uscita dall’Egitto: gli ebrei giunsero alle falde del monte Sinai e lì furono promulgati i dieci comandamenti, cioè l’insegnamento normativo della Torah. “Però non sappiamo precisamente quando ciò avvenne, né dove fosse esattamente il Sinai, cui peraltro il testo biblico si riferisce con denominazioni diverse: talvolta è un deserto, talvolta è il ‘monte di Dio’. Una reticenza non casuale: per come è fatto l’essere umano, se luogo e data fossero stati resi noti, sarebbero immediatamente scattati i pellegrinaggi, il culto, il feticismo, mentre la Torah è separata da considerazioni di spazio e di tempo, e va festeggiata ogni giorno”.
Per la tradizione, quello dell’Omer è un periodo triste, di semi-lutto, in cui non si celebrano matrimoni né feste particolari. Quanto al motivo di una simile connotazione, le risposte – tanto per cambiare – sono disparate. Se ne contano almeno cinque: “Nel 135 e.v. gli ebrei si ribellarono nuovamente ai Romani. Una rivolta sollecitata da alcuni maestri, il più famoso dei quali è Rabbi Akiva: una testa d’uovo, una delle figure più prestigiose della nostra storia. Il suo braccio armato fu un certo Bar Kokheba, un valoroso eroe nazionale che prese a cuore le sorti dell’ebraismo e riuscì a conseguire delle vittorie strepitose. Ma alla fine la sommossa fu soffocata nel sangue”. Per alcuni, dunque, l’Omer identificherebbe il picco di questa insurrezione. Più cautamente, il Talmud lo fa coincidere con lo scoppio di una pestilenza che, in Terra d’Israele, sterminò ventiquattromila giovani, scemando dal trentatreesimo giorno. “Una pestilenza che colpisce solo dei ragazzi? È molto strano… Tutto fa pensare che l’allusione sia, semmai, a una campagna militare disastrosa, con il breve inciso (al giorno numero trentatré) della vittoria di Bar Kokheba e dell’effimera riconquista di Gerusalemme, e che le vittime siano dei soldati. Tanto che furono rinvenute delle monete in bronzo con il nome della città, su un lato, e quello di Bar sull’altro, come se le avessero coniate in omaggio al suo successo, benché illusorio. Ecco perché tuttora, nelle nostre comunità, il lutto viene interrotto, temporaneamente o definitivamente, il trentatreesimo giorno”.
Un’altra variante lo riconduce, poi, al senso di nostalgia per il Santuario distrutto dai Romani, per cui non si poteva più godere dei festeggiamenti e dei primi frutti della natura. E ancora: la sofferenza esprimerebbe l’angoscia dei contadini per il raccolto, minacciato dai venti che pare soffino impetuosi in Terra d’Israele, spesso associati ad alluvioni. Senza contare la tradizione che si concentra sul 17 del mese di Iyar, in pieno periodo dell’Omer, quando al seicentesimo compleanno di Noè sarebbe iniziato il diluvio universale: in questo caso, il lutto onorerebbe quella prima umanità soppressa da Dio per i suoi peccati. Infine, il dolore per l’inasprimento della condizione degli ebrei sotto l’imperatore Adriano, dopo la débâcle di Bar Kokheba.
E un’ulteriore esegesi è subentrata negli ultimi tre, quattro secoli: “I cabalisti fanno risalire al trentatreesimo giorno dell’Omer la morte di Rabbi Shimon Bar-Yohai, ovvero colui che avrebbe inventato la Cabbalà, essendogli attribuita la redazione del libro fondativo della dottrina, lo Zohar. Si tratterebbe, pertanto, della commemorazione festiva della sua morte. Festiva perché pare che Bar-Yohai non vedesse l’ora di ricongiungere la propria anima a Dio. La sua sepoltura, a Meron, è diventata meta di pellegrinaggio di grandi maestri, nonostante il veto del rabbinato ufficiale, e si racconta che uno di questi abbia strisciato fino alla tomba e, strappatisi i vestiti, li abbia bruciati. Da qui sarebbe nata l’usanza di dare fuoco a certi oggetti. Negli stessi giorni, in Israele si organizzano picnic, con falò e gare sportive, soprattutto con l’arco”. I fuochi come mezzi di segnalazione militare, l’arco come arma: non è improbabile che queste tradizioni, fatte discendere da origini mitiche, celebrino in realtà la sollevazione contro i Romani. “D’altronde – conclude rav Caro –, non è forse questo un tratto distintivo dell’ebraismo? Ribaltare, confondere gli eventi, fuorviarne la lettura da parte del mondo esterno, ma facendoli in qualche modo rientrare nel nostro sistema”.
Daniela Modonesi