Società – Il razzismo è una palla
Antonio Dikele Distefano / NON HO MAI AVUTO LA MIA ETÀ / Mondadori
Nelle sue stanze entra sempre il vento, insieme alla luce bianca dei lampioni. Fa freddo, lì dentro, e c’è tristezza. Spaghetti all’olio di semi, schiaffi in faccia e lavarsi alla fontana. Antonio Dikele Distefano è cresciuto, e con lui una malinconia narrativa profonda. Non ho mai avuto la mia età (Mondadori) racconta il tempo breve di chi è stato bambino troppo poco, con addosso la pelle scura, dentro una periferia di panchine, cassonetti, ruspe. Si guarda dai bordi la vita degli altri, di quelli che in te vedranno sempre qualcosa di cattivo. Con gli amici Inno, Claud e Sharif si va sul tetto del centro commerciale, il tetto del mondo, per urlare i desideri a un cielo sordo e remoto. Nessuno ascolta, nessuno può aiutare nessuno. Questo giovane scrittore di origine angolana ma italianissimo (è nato a Busto Arsizio 26 anni fa) aveva molto colpito il lettore con il precedente Chi sta male non lo dice, e ora il percorso continua ma su una strada più adulta, più consapevole. Ci sono bambini obbligati a crescere alla svelta, ascoltando il fidanzato di mamma che li chiama zingari e il papà che bacia in bocca, furtivamente, lo zio Thierno. La disperazione non fa sconti neppure alle migliori intenzioni. Le persone, pensa il protagonista, dovrebbero avere la possibilità “di riviversi”. E c’è questa grazia delle parole in Dikele Distefano, che gli fioriscono in mano come rose in una discarica. Frasi scolpite nella sofferenza. “La vita ci trattava come se volesse ucciderci, ma poi non ci uccideva”. “Anche quando diventi grande, tutto continua ad esserlo più di te”. “Poco di buono è quello che ti rimane”. “Io ho sempre paura, risposi. Che tutto questo non serva a niente”. “Per loro resterai sempre sporco, la tua pelle parla per te”. Perché si fa presto a scrivere romanzi di denuncia, a tesi, sull’onda di un razzismo che è pura cattiveria umana, crudeltà di anime assenti. Invece Antonio racconta soltanto una storia, però lì c’è tutto. vene voglia di abbracciarlo, quel bambino, quando va a recuperare la palla che finisce sotto le macchine parcheggiate per farsi accettare, per mostrare la sua buona volontà. “A noi bastava un pallone e che non piovesse, a noi bastavamo noi”. Invece no che non basta niente, neppure a Inno che forse farà davvero il calciatore, neppure a Claud che parte per Marsiglia, neppure a Christian (il suo nome verrà pronunciato solo alla fine, come una preghiera) che comunque prima di soccombere ci prova, diventa apprendista tornitore, insiste, guardando passare i pullman che vanno al mare (l’azione si svolge dalle parti di Ravenna, dove Dikele Distefano ha vissuto) senza rinunciare però al desiderio delle onde, a un vago riflesso di luce. Quello che a un certo punto il protagonista sembra intuire in Anna, bianca di pelle e di cuore, la ragazza che gli parla di libri e ha il viso spigoloso, i capelli sempre davanti al naso. “Io ci guarderei da fuori per come ci parliamo” dice la ragazza. E trovatela voi, una definizione migliore dell’amore. Ma nulla resiste, nulla si salva o verrà trattenuto. “Tanto finirà com’è successo ai miei genitori, alle giornate, agli Oasis”. La perdita è quasi una vocazione per i fantasmi di un romanzo che picchia forte allo stomaco, e quando si alza lo sguardo al cielo è per prendersi la pioggia in faccia: “Dio è soltanto il desiderio di non essere del tutto soli”. La natura è matrigna e la vita di più, il sentimento dell’orfano accompagna chi sembra avercela fatta, compreso questo giovane scrittore che ci porta dove forse preferiremmo non andare, non guardare, perché il dolore resta il mistero più grande. Però stavolta c’è qualcosa in più: chi sta male non lo dice, è vero, ma forse Antonio sta cominciando a imparare a dirlo.
Maurizio Crosetti, Repubblica Robinson, 20 maggio 2018