“Roth era l’ebraismo diasporico,
nessuno incisivo come lui”
Profonda l’emozione suscitata dalla scomparsa di Philip Roth tra le firme e i collaboratori del portale dell’ebraismo italiano www.moked.it.
Per David Bidussa, storico sociale delle idee, Roth “è sempre stato un adolescente impertinente”. E per questo, afferma, “è difficile già pensare che sia invecchiato, figuriamoci che sia morto”.
Una figura di intellettuale, dice con ammirazione, “il cui codice era quello di provocare l’establishment, in un modo tipico di pensare di chi sente di avere il mondo davanti a sé”. Difficile, prosegue, “trovare oggi voci del suo calibro e della sua radicalità”.
Lamento di Portnoy il libro più apprezzato da Bidussa, “per la capacità di ironia e sarcasmo difficilmente eguagliabili” che emergono nel corso della lettura. Un pezzo di voce “che ci obbligava a tornare sui fondamentali” anche per quanto concerne la rappresentazione di una cultura di minoranza quale quella ebraica.
“Roth era sarcastico, ironico, con una forza corrosiva straordinaria. Ed è esattamente questo che ci mancherà”.
Il segreto del suo successo in Italia, per lo storico Alberto Cavaglion, è anche “nelle buone e tempestive traduzioni della casa editrice Einaudi, che gli hanno dato grande popolarità”.
Anche per Cavaglion il testo di riferimento essenziale è Lamento di Portnoy. “Per la mia generazione – afferma – un testo rivelatore. E un manifesto dell’ebraismo diasporico, con tutti i suoi complessi. Una funzione assolta, a mio modo di vedere, ancor più di un Woody Allen”.
Momento chiave la scena in cui, in attesa di atterrare a Tel Aviv, il protagonista ha modo di prendere effettiva coscienza che il paese in cui sta per giungere è popolato quasi solo da ebrei. Un fatto nuovo, spiega Cavaglion, “per chi si è declinato sempre come minoranza”.
Grande infine l’apprezzamento per il modo in cui anni fa Roth ha detto basta alla scrittura. “Basta, chiudo, smetto. Un atto – sottolinea – coraggioso e nobile”.
Il docente universitario Shaul Bassi, autore di un saggio su Roth in Essere qualcun altro. Ebrei postmoderni e postcoloniali, ha provato a più riprese a invitarlo nella città lagunare per una conferenza. Tentativi purtroppo naufragati, ci spiega, “per le condizioni di salute che iniziavano a peggiorare e per la sua ritrosia pubblica”. Roth, sostiene Bassi, “è stato l’incarnazione di quella cultura ebraica laica che in Italia non siamo riusciti a formulare”. E in questo ambito, sottolinea, “il suo contributo è stato fondamentale”. Bassi dice di amare tutti i suoi scritti. Ma uno in particolare: Il teatro di Sabbath. “Lo amo perché è pieno di cattiveria, un argomento di cui si ha una terribile paura di parlare”.
Diversi tentativi di invitarlo a Venezia non andati a buon fine, ma anche un incontro dal vivo del tutto casuale in un ferramenta newyorkese. “Ero tentato di avvicinarmi, di presentarmi come un suo ammiratore. Ma avevo come timore di spezzare un incanto. E così – racconta – ho preferito contemplarlo a distanza”.
“Nonostante l’età non più giovanissima, me lo sono sempre rappresentata come un giovane. Una figura ancora attiva nella società, nella vita di ogni giorno. Apprendere la notizia della sua scomparsa – dice la storica Anna Foa – è stato un duro colpo”.
Vorace lettrice dei suoi romanzi, Foa li conserva con cura nella sua libreria. Dal primo all’ultimo. Un patrimonio letterario immenso, osserva la studiosa, “che mi ha aperto un mondo, uno sguardo su una realtà che fino ad allora poco conoscevo”. E come protagonista uno scrittore “fortemente impregnato di ebraismo laico orientato a sinistra, con un significativo carico di fascino personale”.
A lasciarci, conclude Foa, è un vero e proprio gigante. “Non capisco come il Nobel gli sia sempre sfuggito. Se ne è fatto un tormentone giornalistico ma il vuoto resta: la sua levatura – dice – era quella”.
Dichiara Guido Vitale, direttore di Pagine Ebraiche, in una intervista con il settimanale valdese Riforma: “Il valore letterario di Roth ha fatto sì che una generazione di lettori, soprattutto delle comunità ebraiche italiane, potesse giungere a una visione diversa, a una presa diretta sul mondo e sulle sue dinamiche; consapevolezze e visioni d’insieme, queste, allora non facilmente afferrabili”. Per chi era giovane nel post sessantotto, e per la realtà ebraica italiana di allora, che Vitale definisce “antica storicamente, ma provinciale e marginale rispetto ai grandi flussi culturali che caratterizzarono poi l’ebraismo contemporaneo”, Roth rappresentava una finestra sul mondo, una nuova possibilità. E cioè quella di poter incontrare una realtà ebraica diversa: “spiritosa, intelligente, positiva”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
(23 maggio 2018)