Fine vita
Segnalo, con qualche ritardo (dovuto alla necessità commentare altre notizie di attualità), un seminario di alto interesse organizzato dall’Università di Salerno, di concerto con il CIRB (Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica), lo scorso martedì 8 maggio, dal titolo “Disponibilità o indisponibilità della vita. Riflessioni bioetiche alla luce della legge 219 del 14/12/17”. L’incontro ha rappresentato un libero scambio di opinioni tra giuristi, medici, filosofi, chiamati non solo a interpretare il senso, le ragioni e le prospettive aperte della recente norma sul cd. “testamento biologico” (che, com’è noto, autorizza il soggetto a disporre anticipatamente riguardo al trattamento sanitario a cui desidera o non desidera essere sottoposto, in caso di grave e irreversibile malattia, una volta che abbia a perdere la piena capacità di esprimere la propria volontà): una legge, come è stato osservato, che segna un punto di inizio, non già di arrivo, e che solleva una molteplicità di domande, riguardo al concetto e ai limiti della cosiddetta autodeterminazione dell’uomo sul proprio corpo e sulla propria salute (sancita, com’è noto, nell’articolo 32 della Costituzione, ma finora lasciata prevalentemente, sul piano della pratica applicazione, alle discordanti decisioni giurisprudenziali).
Il punto di vista ebraico è stato specificamente trattato, nella relazione introduttiva della sessione pomeridiana, dal Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni (che, com’è noto, è anche, oltre che un illustre medico, Vice-Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica, e che ringrazio vivamente per avere voluto accettare, con grande spontaneità e semplicità, nonostante i suoi pressanti impegni, il nostro invito), il quale ha pronunciato diverse considerazioni di alta lucidità e chiarezza (altamente apprezzate dall’uditorio) riguardo all’articolata concezione del valore della vita nella tradizione ebraica, e del difficile equilibrio tra la sacralità dell’esistenza (da cui parrebbe discendere anche una concezione della stessa come dovere, e quindi un’idea di indisponibilità della stessa da parte dell’individuo) e il confliggente principio di libertà dell’uomo, secondo cui non sarebbe possibile imporre a qualcuno la prosecuzione forzata di un’esistenza ritenuta, a vario titolo, insopportabile. Non sono in grado, in ragione della vastità delle problematiche affrontate dal Rav (né, data la delicatezza dell’argomento, che impone precisione ed esattezza anche nei singoli termini adoperati, mi sentirei autorizzato a farlo), di sintetizzarne il pensiero, ma ritengo opportuno rammentare un riferimento da lui fatto alla vicenda della morte di Saul, richiamata, com’è noto (ma in due versioni diverse), alla fine del 1° e all’inizio del 2° libro di Samuele. Com’è noto, il re, gravemente ferito, e sul punto di essere catturato dai Filistei, dà ordine (secondo il racconto alla fine del 1° libro) al suo scudiero di finirlo, affinché i nemici non facciano scempio del suo corpo ancora in vita. Al rifiuto del soldato, Saul si getta da solo sulla spada, ricevendone così la morte, e lo scudiero, alla vista di ciò, decide di togliersi anch’egli la vita.
Il gesto di Saul (che è narrato, all’inizio del libro successivo, in un modo diverso) è stato oggetto, tradizionalmente, di diverse considerazioni. Ma il suo significato essenziale, a mio avviso, risiede nel fatto che la scelta di porre termine all’esistenza non è collegata, certamente, a un rifiuto del valore della vita, né a una paura della sofferenza, ma al desiderio di concludere la vita in una condizione di libertà, non di prigionia o di offesa e ludibrio (come certamente sarebbe avvenuto se il re fosse stato catturato dai nemici). Saul vorrebbe vivere, ma vorrebbe farlo solo come uomo libero, e perciò, quando ciò diventa impossibile, preferisce morire. Da questo punto di vista, la sua storia appare parallela a quella di Catone Uticense, che, nel 46 a.C., all’approssimarsi delle truppe cesariane, sceglie di morire, pur di non cadere nelle mani del nemico. Il suo gesto, com’è noto, è eternato dai versi di Dante, che ne fa un campione della libertà: quella libertà “ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” (Purg. I.71-72). In quanto suicida, il posto di Catone dovrebbe essere all’Inferno, accanto a Pier delle Vigne, e invece, com’è noto, egli è posto a guardia del Purgatorio, e ciò avviene, come nota Gianrico Carofiglio, nel suo libro “La manomissione delle parole”, “non malgrado il suo suicidio, ma ‘per’ il suo suicidio, che è un atto morale di protesta in nome della libertà. Una ‘scelta’ di libertà”. Una libertà di scegliere, quindi, ma, evidentemente, non una libertà arbitraria e indiscriminata: una libertà condizionata al perseguimento di un’altra libertà, ossia al valore della vita umana come vita da uomini liberi, e non da servi. La vita da schiavi non è vera vita, e può essere rifiutata, come fecero gli zeloti a Masada.
Qual è il giudizio morale che si deve dare di Saul, di Catone, degli zeloti? Credo che non ci possa essere una risposta univoca, e la stessa scelta di Dante pare lasciarlo intendere: Catone non è collocato nelle tenebre dell’Inferno, ma neanche nella luce del Paradiso, bensì nel chiaroscuro del Purgatorio, il luogo dell’attesa e di una redenzione in via di compimento.
Francesco Lucrezi
(30 maggio 2018)