Levi e la resilienza
Metti uno Shabbat pomeriggio d’una calda primavera una madre, un padre ed un doppio passeggino in giro per la città. Provare a sentirsi esseri umani pensanti (o che perlomeno cercano di pensare) ed approfittare dell’abbiocco post postprandiale dei pargoli per ascoltare (in sordina nelle retro file, in piedi, con un occhio alla prole ed uno all’oratore) Marco Belpoliti che parla di La resilienza come atto creativo. Fare di più con meno ai Dialoghi sull’uomo pistoiesi di quest’ultima edizione.
Se la Resistenza è un atto collettivo, e resistere indica una fermezza di fronte alle avversità e la capacità di non farsi abbattere da esse, la resilienza è invece un atto individuale, del singolo che fa qualcosa di più di resistere ed inventa metodi creativi per affrontare le avversità da un lato con l’adattarsi ad esse con flessibilità, dall’altro, così facendo, con il combatterle.
Come insegna lo psicologo Boris Cyrulnik, bambino sopravvissuto nascosto in Francia durante la Shoah e rimasto orfano dei genitori i quali furono invece arrestati ed assassinati, si possono affrontare le avversità sviluppando (sebbene secondo alcuni studiosi le capacità di resilienza siano innate e caratteriali) emozioni positive che controbilancino eventi catastrofici i quali producono emozioni negative.
Non sorprende che Belpoliti citi come esempio principe di resilienza Se questo è un uomo di Primo Levi, in particolare l’undicesimo capitolo intitolato Il canto di Ulisse dove il richiamo dantesco (“Fatti non foste a viver come bruti” del canto XXVI dell’Inferno) suona per Levi – il quale, nel mezzo dell’abbrutimento della vita in lager, mentre sta andando a prendere la marmitta del rancio, cerca di insegnare l’italiano ad un compagno attraverso la Commedia – “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”. Uno sprazzo, un barlume in grado di far sentire umani persino loro, relegati al ruolo di oggetti (stücke, pezzi, venivano chiamati i detenuti in lager), loro, “uomini in travaglio”, con questo travagliare della vita che a me ricorda tanto il Montale del Meriggiare pallido e assorto, in cui il caldo pomeriggio assolato, con il mare in lontananza, invece di aprire alla bellezza del crogiolarsi al sole caldo estivo rivelano al poeta con crudezza che “la vita e il suo travaglio” sono “una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, con la fatica di allitterazioni che allappano legando la lingua e rendendo afasici.
Ulisse di cui avevo scritto nel tema della maturità classica il quale aveva come oggetto proprio il fascino moderno del mito omerico da Dante in poi: come dimenticare che il “folle volo”, il cercare di spingersi oltre i propri limiti non come sfida a Dio (per inciso, uno dei principali fattori di protezione e di resilienza sembra essere la fede religiosa) ma come tentativo di guardare sempre un po’ più in là, è arrivato fino al foscoliano amore per la terra natale e alla nostalgia di ogni esiliato che vorrebbe almeno una volta nella vita poter tornare a baciare “la sua petrosa Itaca”, e persino a ribaltare in Umberto Saba la “triste meraviglia” di Montale, con l’affermare che dopo tanto navigare tra coste dalmate, isolotti e tempeste, nonostante tutto, della vita continua ad essere avvertito “il doloroso amore”.
Quella del doloroso amore per la vita, ancora in vecchiaia, potrebbe essere la chiave di lettura che ribalta la conclusione di Belpoliti, dal suono (forse apparentemente) disperante: Levi che interpreta Améry nel capitolo VI de I sommersi e i salvati intitolato proprio L’intellettuale ad Auschwitz, Levi che tanta resilienza ha mostrato testimoniando, analizzando, scrivendo (e non trovo possa esserci una forma migliore di resilienza della scrittura), come Améry si è tolto la vita. Così chiude Belpoliti, con il suicidio di Levi, in contraddizione con quanto sino ad ora affermato: allora Primo Levi non è stato resiliente fino in fondo, ha ceduto, si è perso?
Forse no, forse il suicidio in lager è la chiave per leggere il suicidio di Levi su cui tanti si sono interrogati: nei campi uccidersi era vietato, e se c’era qualcosa che provocava l’immediata e feroce reazione nazista era il tentativo dei prigionieri di rivendicare la propria umanità attraverso il libero arbitrio del gesto suicida, tanto che in tutti i modi il suicidio veniva impedito, fermato quando possibile e punito.
Dal destino (ammesso che il destino esista, chiamiamolo piuttosto ciò che ci accade), ha ricordato Belpoliti, possiamo decidere di lasciarci trascinare, o viceversa essere resilienti, opporci, affermare che ci può essere un’altra storia, una diversa possibilità.
Allora forse, con gli occhi velati di lacrime dalla commozione, riusciamo ad intravvedere un quasi anziano resiliente il quale decide a modo suo di non cedere ai mali della vecchiaia, ai fantasmi del lager (perché il lager non passa mai), alla depressione di cui è stato dichiarato soffrisse, al timore di non riuscire più a scrivere e ad affrontare la vita attraverso la scrittura, alle sfide del negazionismo e a quelle del senso di colpa della sopravvivenza, per scegliere invece come congedarsi.
Sara Valentina Di Palma
(31 maggio 2018)