POESIA Nel segno di Schlemihl
Heinrich Heine / MELODIE EBRAICHE / Giuntina
Dopo la pubblicazione de Il caso Heine di Marcel Reich-Ranicki, Giuntina felicemente ripropone del grande poeta renano uno dei suoi testi più belli: le incantevoli Melodie ebraiche, l’ultima sezione del Romanzero (1851), che esce nella classica traduzione di Giorgio Calabresi, corredato da un’adeguata curatela di Liliana Giacoponi. Sull’onda del goethiano West-östlicher Divan l’ambientazione delle Melodie si colloca in un Oriente fascinoso e fantastico, su uno sfondo biblico. L’incipit della prima melodia Principessa Shabbàth recita: “Nelle favole d’Arabia vedi principi incantati ritornare al loro aspetto vero e splendido ogni tanto”. È l’antefatto di ciò che ci si appresta a raccontare. Il principe Israele, a causa di “un sortilegio” viene trasformato in cane: “Cane, con idee canine, ringhia e sguazza dentro il fango della vita per sei giorni, a ludibrio dei monelli”. Ma nell’ora del crepuscolo del venerdì, nella sacra intimità ebraica, al riparo dagli oltraggi e dagli insulti, ad attenderlo c’è la Principessa Shabbàth ed allora “l’incantesimo svanisce ed il cane ancora è fatto Uomo, con affetti umani, cuore eretto, cuore in alto, lindo, rivestito a festa”. Ma all’impallidire del “bel giorno” e all’approssimarsi dell’“ora maledetta” del commiato, dell’Havdalah il principe sospira, perché “già l’orrore de la canina metamorfosi l’invade”, il principe si dilegua e si ritrasforma nel “peloso orrendo mostro”. Se a giudizio di Hannah Arendt, Heine tra tutti gli ebrei tedeschi poteva dirsi il solo ad essere parimenti tedesco ed ebreo, l’esempio di “un’assimilazione davvero felice”, ad un’attenta osservazione tutto questo non è così vero. Bene ha fatto Reich-Ranicki a gettare luce sul fondamento. più occultato che palese, della sua poesia. Il Buch der Lieder non è un inno all’amore, ma più verosimilmente la dichiarazione della sua impossibilità da parte di un ebreo che vive la sua condizione di esclusione. Ma ispirandosi alla sorte degli ebrei, Heine tacitamente ha intonato un canto universale per tutti i vinti e gli esclusi, per tutti coloro che “bramavano l’amore ma erano costretti ad accontentarsi del desiderio e della speranza”. Ma come avvengono queste trasformazioni di un ebreo in un cane? Non in modo spontaneo. A spiegarlo è Theodor Lessing in Jüdische Selbsthass (1930). La cosa era semplice: “Non serve altro che gridargli contro abbastanza a lungo: “Cane”. Questo doveva saperlo anche Heine per esperienza vissuta, immerso com’era nell’antisemitismo. Così come lo sapeva Kafka, che nel racconto Indagini di un cane ha narrato di una “metamorfosi canina”, dove larvatamente si è stabilita l’identità tra caninità ed ebrei, così abbiamo un Hund mit hündischen Gedanken, “cane con pensieri canini”, dedito ad un’attenta “inchiesta autobiografica”. Nel Processo Josef K viene appunto ucciso “come un cane”. Si può dire che Heine fosse affetto dalla sindrome di Schlemihl. Il richiamo è alla fantasiosa figura ebraico-romantica di Peter Schlemihl, che Heine stesso ha concorso (insieme a Chamisso) a creare, raccontandone la genealogia in Giuda Levita. L’innocenza e la bontà dello Schlemihl sono assunti da Heine per caratterizzare il destino del poeta tout court. Ma Schlemihl divenne la vivente incarnazione dello sradicato, dell’apatrida e di tutte le desplaced persons, in breve dell’ebreo. Lo Schlemihltum è per Heine un sicuro segnale di ebraicità. Di recente, Norman Manea ritornava su questa figura, affermando che lo scrittore ebreo ha impresso nell’anima il “tatuaggio di Schlemihl”. Il suo destino di scrittore extra-territoriale veniva accomunato a questa figura ahasverica: “In esilio, ora, porto dentro di me la Terra Promessa, la Lingua, rifugio notturno di Schlemihl”. Indubbiamente Heine, più di chiunque altro, si è fatto espressione dei destini della modernità ebraica.
Luca De Angelis, Pagine Ebraiche, giugno 2018