Storia – Israele, storia di un’esperienza unica

israele 70 anniClaudio Vercelli / ISRAELE 70 ANNI / Edizioni del Capricorno

Non è facile affrontare la storia dello Stato d’Israele. Se le vicende che lo connotano e lo accompagnano sono sufficientemente chiare, non altrettanto può essere detto dei molti giudizi, a volte anche pregiudizi, che si legano alla sua esistenza, dall’anno di nascita, nel 1948, a oggi. A volte gli equivoci nascono dalle stesse parole che vengono utilizzate in modo superficiale, se non incauto, per definirne la specificità culturale, sociale e civile. Altre volte sono invece il risultato di un consapevole rifiuto. Israele è il prodotto di un percorso politico. Come tale, ha raccolto assensi, ha costruito alleanze, ma ha scontato anche diffidenze e avversioni, se non demonizzazioni. Come ogni Stato, si è confrontato con le nazioni circostanti, dovendosi però misurare perlopiù con un ambiente ostile, che a tutt’oggi ne rifiuta la legittimità storica. Ciò facendo, gli avversari d’Israele denunciano quello che ritengono essere il suo retaggio coloniale, ossia il costituire non il prodotto dell’evoluzione autonoma di un progetto condiviso con le popolazioni locali, soprattutto arabe, in buona parte musulmane e in misura minore cristiane, bensì il risultato di un’imposizione delle potenze occidentali ai danni delle società autoctone. Conta, in questo genere di ostilità, il fatto che Israele sia «lo Stato degli ebrei», costruito nel corso del tempo con l’impegno, per l’appunto, di molti ebrei. Un fatto unico, quanto meno nella storia moderna e contemporanea. Anche per comprendere i motivi del persistere di questi profondi attriti, situati alla radice dello stesso conflitto israelo-palestinese che si trascina irrisolto a tutt’oggi, è allora bene fare chiarezza sulle premesse, sugli sviluppi e quindi sull’evoluzione della sua storia. La quale inizia ben prima del 1948. Se si deve trovare un punto di avvio, al di là dei rimandi ai fondamenti biblici degli originari insediamenti ebraici, ma anche del persistente confronto tra rivendicazioni contrapposte sul diritto al possesso della terra, bisogna partire dai molteplici fenomeni che, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, investirono le società europee e, con esse, le comunità ebraiche che ne erano parte integrante. I processi rivoluzionari, a partire da quello francese, nel definire la figura del cittadino quale titolare di diritti e partecipe della volontà politica collettiva, furono decisivi nel liberare gli ebrei dai tanti vincoli legali, come anche di consuetudine, che in precedenza ne avevano limitato la libertà, di fatto relegandoli al ruolo di sudditi inferiori e subordinati. israele-70-anni-nascita-di-una-nazione-9788877073846Il fenomeno conosciuto come emancipazione, ossia la parificazione giuridica della minoranza ebraica alla maggioranza cristiana, realizzatosi perlopiù durante l’Ottocento in tutta l’Europa occidentale, produsse quindi effetti molteplici. Sancì il superamento delle vecchie pratiche di segregazione spaziale nei ghetti, quei quartieri circoscritti e rigidamente separati, edificati quasi sempre nei centri urbani, dentro i quali gli ebrei erano obbligati a vivere. Inoltre, facendo decadere i limiti o gli impedimenti di accesso alle professioni, così come al sistema d’istruzione pubblico, permise che le piccole comunità ebraiche, da organismi separati, entrassero a fare parte di quella che veniva definita come nazione. La quale era composta da donne e uomini di diversa origine, ora però accomunati da un’unica appartenenza e da un’unica fedeltà a un singolo centro politico, identificato con lo Stato. In tale modo vennero meno quelle interdizioni, sancite per legge, con le quali si definivano gli ebrei come un gruppo distinto, con caratteristiche proprie, in genere considerate negativamente e quindi sanzionate attraverso la segregazione: nel lavoro, nelle relazioni sociali, nelle prospettive di vita. Il superamento della segregazione comportò per gli ebrei stessi non solo nuove opportunità e una libertà nell’eguaglianza fino ad allora quasi mai conosciuta, ma anche la necessità di rielaborare la propria identità, ora a contatto diretto con società in veloce evoluzione. Peraltro, i durissimi pregiudizi non vennero meno. Dal vecchio e consolidato antigiudaismo si passò infatti all’antisemitismo, un complesso di credenze fondate su basi razziste, che continuava ad argomentare non solo dell’inferiorità ma anche della pericolosità dell’ebraismo per il resto dell’umanità. Gli ebrei dell’Europa occidentale, al pari delle altre minoranze e, più in generale, della maggioranza cristiana, vissero nel giro di un secolo un fenomeno di accelerata secolarizzazione, con l’affermarsi della supremazia del potere civile, il consolidarsi della modernizzazione culturale, il superamento di parte delle credenze tradizionali e il confronto con la società circostante, della quale divennero anche esponenti di rilievo. Ben diverse furono invece le vicende degli ebrei dell’Europa orientale. I quali erano molto più numerosi dei correligionari occidentali, raggiungendo con la fine del XIX secolo la cifra di cinque milioni di persone. Tra il 1791 e il 1917, infatti, gli zar costrinsero la quasi totalità dei loro sudditi ebrei a vivere nella «Zona di residenza», istituita nei territori imperiali d’occidente e corrispondente ad ampie aree dell’attuale Polonia, nonché a Lituania, Bielorussia, Ucraina e alcune parti della Russia europea. Dal Baltico al Mar Nero, la popolazione ebraica si trovava condannata a un’esistenza miseranda, ai limiti della sopravvivenza. Un sistema durissimo di limitazioni, sancite dalle norme imposte dalle autorità ma anche dalle abitudini diffuse tra la popolazione cristiana, vincolava la vita quotidiana di famiglie e comunità, costrette in uno stato di perenne abiezione. La violenza antisemita, spesso fomentata dai governi imperiali, si traduceva in sollevazioni popolari, i pogrom, durante le quali gli ebrei venivano privati dei loro pochi averi, percossi, molto spesso assassinati. Con l’uccisione dello zar Alessandro II nel 1881, per esempio, un’ondata di brutalità travolse le comunità dell’Impero, inducendo quindi un gran numero di ebrei ad abbandonare le loro terre di origine. Entro il 1915 almeno 2.600.000 persone emigrarono all’estero, recandosi nella stragrande maggioranza dei casi negli Stati Uniti, in Canada, e in vari paesi dell’America meridionale e dell’Europa occidentale. Tuttavia, una parte minore degli emigrati, circa 70.000, scelse la strada della Palestina, all’epoca territorio ancora appartenente all’Impero ottomano. In quella terra, l’insediamento ebraico non era mai venuto meno nel corso del tempo, anche dopo i processi di dispersione che si erano succeduti con l’avvicendarsi delle dominazioni straniere. All’inizio dell’Ottocento era composto da 10.000 persone, nella quasi totalità dei casi dedite ad attività religiose (in prevalenza studio e preghiera) e concentrate in pochi centri urbani, considerati sacri per l’ebraismo: Safed, Gerusalemme, Hebron, Giaffa, Tiberiade. La popolazione non ebraica, invece, secondo i dati del censimento del 1878, era costituita da poco più di 400.000 arabi musulmani e da 43.000 arabi cristiani. La scelta degli ebrei russi che si mossero verso quei territori trovava una comune ragione nelle idealità sioniste. Il sionismo, movimento nazionale degli ebrei, prima ancora che un’organizzazione politica costituiva una vivace e composita corrente di pensiero. Originatasi nella seconda metà dell’Ottocento tra alcuni pensatori e studiosi, essa indicava nella costituzione di una nuova società ebraica, disancorata dalla vita delle vecchie comunità diasporiche, la soluzione ai problemi che la modernità poneva agli ebrei. Per alcuni si trattava di procedere alla ricostruzione di qualcosa che era andato perduto nel corso del tempo, dopo la distruzione del Secondo Tempio, nell’anno 70 dell’era volgare (o dopo Cristo). Per altri, invece, si doveva dare vita a un’esperienza del tutto nuova, ispirata, più che al passato storico e religioso, al presente dei processi di costituzione degli stati nazionali. I modelli di riferimento erano i Risorgimenti nazionali europei e i movimenti di mobilitazione popolare che avevano attraversato l’intero Ottocento. Quello che si venne costituendo come sionismo politico, promosso da uomini come Theodor Herzl (1860-1904) e Max Nordau (1849-1923), cercava di offrire una risposta definitiva ai molti problemi che attanagliavano il mondo ebraico, soprattutto quello che non aveva conosciuto l’emancipazione: senz’altro l’antisemitismo, ma anche la marginalità sociale ed economica. Inoltre, proponeva l’idea che il «popolo d’Israele» potesse divenire, una volta per sempre, una Nazione tra le altre nazioni. In tutto questo, il rapporto con la religione era senz’altro stretto, ma per una ragione non tanto spirituale, quanto piuttosto culturale: l’ebraismo era inteso come un patrimonio di lunga durata, da trasfondere nel progetto della costruzione di una comunità nazionale che si sarebbe ispirata ai moderni stati. Il proponimento era quello di dare vita a una vera e propria società ebraica unitaria, dalla quale sarebbe derivata una rappresentanza politica, ossia una classe dirigente, impegnata per la costruzione di uno Stato sovrano in quella che era conosciuta come Eretz Israel, la «terra d’Israele ». A conti fatti, il sionismo era ben lontano dal costituire un movimento politico unitario. Al suo interno, infatti, fin da subito si manifestarono correnti di pensiero e posizioni molto articolate, che andavano dalla sinistra socialista fino alla destra liberale. Le diversità di idee si riflettevano sull’agenda politica, ovvero sull’identificazione delle priorità, così come sul modo di realizzarle. Dove e come costruire uno Stato per gli ebrei? Quali percorsi intraprendere, in concreto? Come comportarsi con le nazioni più importanti, a partire dalla Gran Bretagna, per ottenere un qualche sostegno alla propria causa? Da subito, le discussioni furono animate e le risposte diversificate. Tuttavia, dopo il Primo Congresso Sionista mondiale, tenutosi in Svizzera, a Basilea, tra il 29 e il 31 agosto 1897, l’opzione territoriale (uno Stato sovrano per una società ebraica edificata su un territorio dai confini delimitati) divenne la via definitiva sulla quale incamminare le diverse anime del movimento.

Claudio Vercelli, Pagine Ebraiche, giugno 2018

(Estratto da “Israele 70 anni – Nascita di una nazione” – Edizioni del Capricorno)

Lo Stato d’Israele ha settant’anni. La sua nascita, nel 1948, costituisce il risultato di un lungo percorso di consolidamento, iniziato già nella seconda metà dell’Ottocento con i primi insediamenti di pionieri sionisti nella Palestina ottomana. Nel corso della sua breve esistenza, ha già conosciuto diversi mutamenti, confrontandosi sia con i molti conflitti che hanno attraversato il Medio Oriente, a partire da quello con i palestinesi, sia con gli effetti di una modernizzazione accelerata, che ha portato il Paese a essere protagonista dei processi di globalizzazione. Leggere e interpretarne la storia aiuta a capire quali siano i nodi che ci consegna il presente rispetto ai grandi temi dell’identità collettiva, della politica, delle relazioni sociali. Il saggio di Claudio Vercelli, pubblicato dalle Edizioni del Capricorno, lo spiega attraverso i seguenti temi (cui è dedicato ciascuno un capitolo): la genesi: il sionismo alle origini del progetto nazionale; il 1948, le sue origini e i suoi effetti; la società israeliana tra radicamento e immigrazione (1949- 1956); l’età della postcolonizzazione: dalla crisi di Suez alla svolta degli anni Sessanta (1956-1972); dalla Guerra dello Yom Kippur all’ascesa della destra al potere (1973-1981); il confronto con i palestinesi: dal Libano agli accordi di pace di Oslo (1982-1994); il tempo della trasformazione: dalla morte di Rabin ai giorni nostri (1995-2018); la globalizzazione e il futuro di Israele.