Feticci di morte

torino vercelliLa notiziola è transitata silenziosamente, in questi giorni di grandi tensioni politiche nazionali. Non degna, nella sua apparente insignificanza, di essere ripresa, tanto meno per una riflessione un po’ più corposa. Il fatto, riportato da la Repubblica del 28 maggio, è il seguente: ad una fiera di cimeli “storici” in quel di Novegro, in prossimità di Milano, un espositore ha messo in vendita una “divisa del deportato”, proveniente dall’ex campo di Dachau. Sulla sua autenticità non possiamo pronunciarci, né è questione che ci interessi. Posto che non esistessero, quando i Lager erano aperti, delle vere e proprie divise. Semmai, perlopiù, abiti sottratti ai civili già imprigionati e quindi destinati ai nuovi arrivati, indumenti volutamente inadeguati (per qualità, misure, tessuti e cos’altro) ai loro destinatari ma doppiamente utilizzati come, al medesimo tempo, mezzi di spersonalizzazione (cosa siamo senza i nostri abiti?) e di uniformazione (cosa diventiamo in panni da tragici pagliacci?). Posta questa premessa, cosa si può dire di un collezionismo che si spinge a vendere ed acquistare reperti di tale genere? Represso il moto di orrore, tralasciato il legittimo empito di sdegno, cosa si deve pensare di questa “banalizzazione” del passato attraverso il rimando ad un oggetto? Tutto il collezionismo di oggettistica militare – la cosiddetta militaria (da Wikipedia: «per militaria si intende l’insieme di mostreggiature, fregi, distintivi, gradi, uniformi, che costituiscono una delle componenti più curiose dell’equipaggiamento di un militare di una forza armata, collezionate per il loro significato storico») – è attraversato dalla passione, a tratti smodata, per il singolo particolare. Dalla fibbia della cintura alla mostrina della divisa, dalla decorazione al bottone. Non è un caso se molte persone che collezionano reperti del passato di quel genere nutrano poi un’attenzione quasi viscerale per ciò che residua del nazismo e dei suoi corpi armati. La conclusione più semplice alla quale pervenire sarebbe il definirli, a loro volta, come dei “cripto-nazisti”, ossia degli individui che nascondono dietro l’improbabile “valore storico” di un oggetto (quasi si trattasse di un reperto archeologico, destinato a restituirci il senso autentico del passato) un’altrimenti inconfessabile attrazione per ciò che quell’oggetto stesso richiama, ossia il nazismo come ideologia. Ma tutto ciò è vero solo in parte. Cioè, può forse valere ma solo a patto che si sappia leggere più in profondità cosa certi atteggiamenti, certi “gusti”, determinate passioni, alla prova dei fatti rivelano. Il nazismo – infatti – era, tra le altre cose, un gigantesco apparato di produzione di segni. Sì, proprio così: quei segni che, nella disciplina che li studia, la semiotica, indicano «qualcosa che sta per qualcos’altro, a qualcuno in qualche modo» ossia «qualsiasi elemento o contrassegno utile a rendere riconoscibile o distinguibile da altri una persona, una cosa, un luogo» (Treccani online). In questo caso specifico, per l’appunto nella Germania (e poi nell’Europa) in camicia bruna, il segno rimanda immediatamente all’appartenenza (di stirpe, di corpo, di gruppo) e questa, a sua volta, al delirio dell’uniformità. Una visione razzista del mondo non può non alimentarsi del gioco delle uniformità contrapposte. E nel nocciolo del nazismo la maniacalità e l’ossessività per ciò che deve essere uniforme, uguale a se stesso, immutabile, è un elemento imprescindibile. Sia ben chiaro: non tutti “uguali” bensì tutti identici, come se le persone fossero fatte (o rifatte) con lo stampino. I nazisti non erano uomini e donne molto colti, non pensavano troppo ai fatti delle vita, al loro senso (semmai aborrivano il pensiero e il pensare) ma coglievano al volo certe necessità – se così le vogliamo intendere e chiamare – del genere umano, qualcosa al limite dell’etologico, a partire dal bisogno di uniformarsi agli altri per ottenerne l’approvazione. Su questo bisogno hanno costruito un incredibile apparato di convincimenti e, soprattutto, di servitù volontarie (chi non si adeguava, d’altro canto, veniva eliminato dalla scena pubblica). I simbolismi nazisti, a partire dalla proverbiale e tragica svastica, assurta a segno universale (per molti del male, per altri di qualcosa di ancora desiderabile) ne era la quintessenza. Tutta la comunicazione nazi-fascista, e di riflesso quella totalitaria (da «totalità», qualcosa che possiede, omologandoli, tutto e tutti), è basata su un’immensa scenografia dove la collettività è ridotta ad un insieme, letteralmente uniforme e indistinto, di divise, di individui che marciano (possibilmente con entusiasmo, immedesimazione, trasporto) verso un comune destino. Le individualità sono completamente assorbite, letteralmente ingoiate dentro questa immensa catena di montaggio. Cosa c’entra tutto ciò con la passione, a tratti insalubre e patologica, per le divise come capi di vestiario? C’entra poiché l’una cosa – il nazionalsocialismo, come i fascismi – si nutre a volte degli stessi alimenti di chi ha a desiderio il possesso di un oggetto che incorpora un significato tragico, obituario. E questa comunanza è data dalla passione per il feticcio, ossia per un oggetto che ha una valenza simbolica che evoca non la vita bensì la morte. L’ideologia totalitaria non rimanda mai all’esistenza umana come occasione di emancipazione responsabile. Essa, infatti, si articola intorno alla santificazione del rapporto di servitù, all’obbedienza cieca e acritica, non a caso definita dagli stessi nazisti come Kadavergehorsam «obbedienza cadaverica». Prima di assassinare le proprie vittime costoro avevano già ucciso la propria coscienza e, con essa, il diritto alla vita non solo come dimensione biologica ma come evento etico. La vita propria, esaltando invece il martirio, l’auto-immolazione come massimo obiettivo esistenziale per un autentico nazista, un vero credente nella «comunità di stirpe», e poi quella altrui, da eliminare come si fa con i «parassiti». Per l’appunto. Se l’esistenza è libertà e responsabilità, impulso vitale come anche suo socializzazione in un sistema di reciprocità, il feticismo ne costituisce allora l’esatto opposto, identificandosi con il “sempre morto” di un oggetto inanimato. Che sia la divisa di un deportato o quella del suo aguzzino. Tutto ciò si chiama in un solo modo, con una parola presa dalla filosofia: reificazione, cioè riduzione del vivente e dell’umano a puro oggetto, come tale del tutto sostituibile. Il divieto di rappresentare ciò che costituisce lo spirito della vita, poiché è al di sopra dei singoli viventi, non a caso risponde allora alla consapevolezza che Satana si nasconde sempre nel particolare. Come le passioni feticiste stanno lì a dimostrare.

Claudio Vercelli