“Vi racconto Dante Lattes”
Scrivere di Dante Lattes è per me come fare un pezzetto della mia stessa autobiografia. Ero infatti il suo unico nipote, cresciuto e allevato in casa sua dopo la crudele infermità mentale che mi aveva sottratto il padre all’età di due anni.
E tuttavia si tratta persino per me di un’impresa non facile, perché egli era una persona che parlava molto poco di se stessa, che pareva attribuire pochissima importanza alle proprie esperienze personali; in molti casi poteva fornire ricordi più significativi di esperienze che lo avevano visto osservatore o spettatore di quelle che lo avevano visto come protagonista.
Ci teneva a ricordarsi di discendere da una famiglia ebraica di lontana origine provenzale, della quale menzionava l’antenato Bonnet de Latés. Fra gli antenati in Italia ricordava anche un medico presso la corte papale; sapeva che i suoi antenati erano poi stati espulsi dallo Stato della Chiesa ma non si era curato di sapere quando e perché. Sapeva che si erano rifugiati subito oltre i confini, nella cittadina di Pitigliano, rocca degli Orsini, appartenente al Granducato di Toscana. Della sua infanzia a Pitigliano narrava soltanto di essere stato colpito alla fronte da un sasso gettatogli da un ragazzo dal ponte di accesso alla cittadina; e ne mostrava quasi soddisfatto la piccola cicatrice residua.
Ricordava sempre quando, ancora ragazzo, i suoi si trasferirono a Livorno, facendo un viaggio in treno che a quei tempi era lunghissimo e comportava persino uno o più cambi.
Il padre, sarto, era molto povero ma chi lo conobbe lo descriveva come un uomo gioviale, cameratesco, e, all’occasione,buon bevitore, socievole e scherzoso, al riparo di un pizzetto biondo che era il suo biglietto da visita.
A Livorno Dante Lattes aveva fatto i suoi studi, frequentando le Scuole ebraiche e il Collegio rabbinico sotto la guida del filosofo e cabbalista Elia Benamozegh, rampollo di una nota famiglia ebraico-marocchina.
Malgrado la sua piccola statura era riuscito ad eccellere negli esercizi di ginnastica, soprattutto nella corsa e nel salto in alto; e se ne compiaceva. Nel corso degli anni della sua scuola aveva anche trovato il modo di guadagnare qualcosa, aiutando negli studi i ragazzi più giovani e persino ricopiando le parti di commedie teatrali che sarebbero poi state recitate all’Arena, il teatro (credo all’aperto) della città.
Della sua famiglia raccontava poco. Un suo fratello più anziano, Guglielmo, sarebbe stato dopo la grande guerra direttore del Vessillo Israelitico, fondato da Flaminio Servi, rabbino di Casale Monferrato. Personalmente non mi pare che mio nonno avesse una grande opinione di quel periodico. Un figlio di Guglielmo, Aldo, che ho conosciuto nella mia infanzia, sarebbe stato fra i primi cappellani militari ebrei e anche rabbino di Tripoli in Libia in un periodo alquanto tempestoso.
Dante Lattes amò sempre Livorno, che era per lui quasi una seconda patria; derivò da quella città il suo accento toscano, al quale teneva molto.
Appena conseguito il titolo di maskil, alla fine del XIX secolo, fu inviato presso la Comunità di Trieste, allora in Austria, per fungere da officiante presso la Schola Vivante e da insegnante di materie ebraiche presso le classi – molto indisciplinate – dove studiavano i figli della comunità corfiota, la componente più povera degli ebrei di quella città. Fu in uno di quegli anni che tornò a Livorno per fare gli esami di chakham .
Gli ebrei triestini lo accolsero bene, tanto che persino lui, toscano di nascita e di famiglia, molti anni dopo, in ospedale a Venezia, meravigliò i presenti, lamentandosi…in triestino!
A Trieste si sposò con Emma, una figlia di Nino Aronne Curiel, allora segretario della locale Comunità e direttore del mensile “Il Corriere Israelitico”, che dopo la sua morte fu diretto assieme da suo figlio Riccardo e da suo genero, appunto Dante Lattes. Successivamente, durante la Prima Guerra mondiale, fondendosi con la “Settimana Israelitica” di Firenze, diretta da Alfonso Pacifici, avrebbe dato origine al settimanale “Israel”.
La sua lunga esperienza triestina lo mise in stretto contatto con una nuova tipologia di ebrei. A partire dall’uso liturgico: ancor oggi Trieste è una Comunità dal rito (minhag) tedesco (ashkenazita). Gli ebrei del posto parlavano in italiano, o, per essere più precisi, in dialetto triestino; ma si erano formati nelle locali scuole governative; quasi tutti conoscevano il tedesco, molti avevano fatto l’Università a Graz ed erano stati a Vienna.
Erano sudditi di quell’Impero dalle molteplici nazionalità che parlavano numerose lingue, con il tedesco che le collegava fra di loro, assieme alla Maestà di Francesco Giuseppe. Mia mamma mi narrava che ogni mattina, quando frequentava la scuola a Trieste, era obbligatorio per tutti cantare in piedi in coro l’inno austriaco (prima in tedesco, poi nella versione italiana):
“Gott erhalte, Gott beschütze / unsern Kaiser, unser Land / Maechtig durch des Glaubens Stuetze / faehrt er uns mit weiser Hand!…”
“Serbi Dio l’austriaco Regno / guardi il nostro Imperator / Nella fede gli è sostegno, / regga noi con saggio amor!…”
“Serbi Dio l’austriaco Regno / guardi il nostro Imperator” (gli irrendentisti, sarcastici, dall’inizio delle tre prime parole lo chiamavano El serbidiola: “I ve g’ha fato cantar el serbidiola ?”).
Laddove l’Italia, quando parlava straniero era quasi sempre il francese, qui il tedesco era la lingua ufficiale; l’italiano era, tuttavia, per Francesco Giuseppe, la lingua di uno dei suoi popoli. Mica male, però, se paragonato al XX secolo!
Mio nonno deve essere stato presto in condizione di leggere testi in tedesco; nella sua biblioteca (e ora nella mia) facevano bella mostra di sé i tre volumi dei Tagebücher di Theodor Herzl, orgoglio dei sionisti jekke. Non scriveva in questa lingua, ma ricordo benissimo di averlo visto sostenere un dialogo in tedesco, molti anni dopo, a Tel Aviv. Mia mamma invece lo conosceva bene, e me lo aveva fatto anche un po’ studiare a casa, da bambino.
Quello che contava soprattutto era il fatto che gli anni passati nella Trieste austriaca lo avevano messo in contatto con quel mondo ebraico ashkenazita, il mondo centro ed est-europeo, culturalmente ricchissimo e demograficamente molto numeroso, del quale parleremo più avanti.
Suddito italiano, ai primi di maggio del 1915 dovette rientrare sollecitamente in Italia con moglie e figlie, evitando così l’inevitabile internamento come appartenente a un Paese nemico. Seguì un periodo di migrazioni fra Padova, Siena, Firenze e Roma; a Siena subì la perdita della secondogenita, Nora; fu per lui uno shock dal quale non si riebbe mai e che forse influenzò non poco anche il suo pensiero ebraico. Molto sostenuto in quella triste circostanza dall’amicizia con Alfonso Pacifici, giunto infine a Roma, dove per lungo tempo fu ospite in una piccola pensione, cominciò una stretta collaborazione con l’Organizzazione Sionistica Mondiale, oltre che una serie di impegni didattici e pubblicistici. A Roma conobbe e fece amicizia con una serie di ebrei di provenienza est-europea, primo fra tutti Moshe Beilinsohn, russo di nascita, laureato in Medicina, sionista attivo, che fu poi in Palestina dove lo ritroviamo fra i fondatori del quotidiano socialista Davar. Fra i residenti in quella stessa pensione va segnalata Xenja Panfilovna, una russa non ebrea, coniuge e compagna di lotta di Lev Silberberg, un ebreo russo che sarebbe morto in un campo di detenzione come sovversivo. La loro figlia, anche lei di nome Xenia, detta Xenjuṧka, “Xenietta”, sarebbe diventata la prima moglie di Emilio Sereni, futuro senatore del PCI, fratello minore del chalutz e vittima nazista Enzo Sereni.
Per Lattes la conoscenza della realtà dell’ebraismo est-europeo ebbe una svolta decisiva grazie a questo ambiente. Gli ebrei polacchi, russi, ungheresi e romeni gli si presentarono con la loro ricchezza culturale polimorfa. C’erano naturalmente anche i chassidim e le loro corti con i singolari “Wunderrebbes”, i rabbini ritenuti operatori di miracoli, ma anche i “maskilim”, malamente detti gli illuministi ebrei, i letterati, i poeti, i pensatori ebrei “laici”, che scrivevano in yiddish e in ebraico moderno, gli storici quali Heinrich Graetz, Simon Dubnow e Ben-Zion Dinaburg (poi Dinur); da quelle terre erano partiti i colonizzatori delle prime ‘aliyot . In altre parole, il sionismo, che in Italia poteva parere un movimento idealistico ma velleitario e utopistico, carico di teoria e di fede, aveva già allora fra le masse ebraiche dell’Europa dell’Est il carattere di un movimento nazionale realizzatore. Rapporti fra gli Ostjuden e gli ebrei italiani non erano certo mancati precedentemente: era notevole la fama di Ramchal, Moshe Chaim Luzzatto di Padova, poeta, cabbalista, talmudista, che era stato soprannominato dal poeta Chayim Nachman Bialik ha-bachur mi-Padova, “il giovane padovano”; e lo stesso Gaon di Vilna aveva dichiarato che se Ramchal fosse stato ancora vivo ai suoi tempi, sarebbe andato a piedi dalla natìa Lituania a Padova per udire dottrina dalla sua bocca. Molto apprezzamento, dunque; ma la concreta vita ebraica, i milioni di ebrei che vivevano, fra la Russia zarista, le provincie austriache e la nascente potenza prussiana, era estranea ai costumi degli ebrei italiani che poco sapevano delle lotte e delle sofferenze, persino del modo di parlare e della pronuncia stessa della lingua ebraica usate in quelle terre.
Lattes e Beilinsohn intrapresero allora un’intensa attività di traduzione, di studio e di presentazione di questa nuova realtà al pubblico italiano, sia a quello ebraico sia a quello non ebraico. Questo era certamente connesso al loro modo di essere sionisti, che significava soprattutto valorizzare, consolidare il carattere nazionale della realtà ebraica. In Italia, al contrario, l’identità ebraica si confondeva e si identificava con una pratica tutta cultuale, designata israelitica, che era quasi un sottinteso per significare che si stava parlando di una collettività di italiani che seguivano un credo religioso diverso da quello cattolico maggioritario. Fu in quei tempi che Dante Lattes coltivò due nuovi tipi di relazioni con il mondo ebraico. Da un lato, con i nuovi autori, come Achad ha-‘am, Martin Buber, Yosef Klausner, A.H.Weiss di Vienna, gli storici della filosofia ebraica di Gerusalemme, come Julius Gutmann; dall’altro, con i giovani ebrei palestinesi che venivano a studiare in Italia, come i fratelli Ben Dor, i quali già usavano l’ebraico moderno come lingua propria.
Con la fine della guerra e il crollo, fra gli altri, dell’Impero ottomano cui era appartenuta la Palestina, con le speranze suscitate dalla dichiarazione Balfour, con lo stimolo esercitato dal risorgere, nella stessa Europa, di nazionalità ansiose di recuperare una propria autonomia e una propria rinascita, questa rete di comunicazioni prometteva novità straordinarie anche per gli ebrei, e soprattutto ne esaltava la componente nazionale, proiettandola in prima linea. Ma, in Italia, con inevitabili limiti.
Il numero degli ebrei, qui, era modesto; la loro rappresentanza era prevalentemente una espressione delle media, a volte anche della grossa borghesia del Paese, che era uscita dall’esperienza bellica con quello che pareva essere il completamento del sogno risorgimentale. Ironia della sorte: liberata dal dominio straniero, l’Italia era ora diventata dominatrice di altri popoli. I tedeschi del Sud Tirolo, gli sloveni a Trieste e, grazie a D’Annunzio, i croati a Fiume – per non dire dei greci e turchi del Dodecaneso e delle aspirazioni a diventare una potenza coloniale. In questo quadro, l’identità ebraica tendeva a vestire al massimo i caratteri di una minoranza religiosa.
È vero che a Firenze l’amico di Lattes, Alfonso Pacifici, anche sotto l’influenza del rabbino Shmuel Zvi Margulies , ebreo “ortodosso” dell’Est, insegnava a un gruppo di giovani ebrei colti ed entusiasti che l’identità ebraica non poteva risolversi nelle categorie accettate dall’Occidente, quelle di nazione e/o di religione; si trattava di una presenza originale, non classificabile secondo i criteri correnti ma solo sulla base di una relazione profonda con la Divinità-una: gli ebrei sarebbero appartenuti a una classe inedita, detta Israele l’unico.
Questo non poteva, e in effetti non poté dare origine a un movimento di massa ma solo a un qualificato gruppo intellettualmente prezioso, che si sarebbe sviluppato a fianco della moderna ortodossia ebraica, soprattutto in Israele.
In Italia, d’altronde, una realtà nazionale ebraica non era mai propriamente esistita, almeno fino a quando non vi fu importata da due sorgenti: la più importante, quella dell’Yishuv (insediamento) ebraico in Palestina, con i suoi circoli, i suoi giornali, le sue scuole e il suo teatro, dal 1925 anche con la sua prima università. La seconda sorgente, che era stata fondamentale per le prime realizzazioni nella stessa Palestina mandataria britannica, era quella dell’ebraismo detto ashkenazita, che aveva costituito lo scheletro portante dello stesso movimento sionistico. Costruire, nell’atmosfera generale del primo dopoguerra, una nazionalità ebraica più o meno come se ne costruiva una jugoslava o una cecoslovacca, non era più un sogno ma un obiettivo concreto. La presenza di Dante Lattes sul palco all’inaugurazione dell’Università ebraica di Gerusalemme con il discorso di lord Balfour è perfettamente coerente con questo sforzo.
Nel frattempo però l’Italia era cambiata, era diventata un regime fascista e Mussolini aveva pensato anche al processo della edificazione sionistica come a una delle possibili pedine nelle sue aspirazioni medio-orientali.
Il regime pareva aver conseguito alcuni successi promettenti.
La conquista, contro le ambizioni francesi, del rabbinato di Alessandria d’Egitto, l’istituzione della Fiera del Levante a Bari, della Scuola marittima per giovani ebrei a Civitavecchia, l’insegnamento – sia pure opzionale – della lingua italiana nelle classi superiori della Gimnasia Herzlia (corrispondente a un liceo) di Tel Aviv sono tutti elementi di una tendenza complessiva che avrebbe dovuto privilegiare gli ebrei e garantirsi il loro consenso, da estendere poi al di là dei confini italiani.
A mio parere, la svolta, che doveva diventare la premessa alla legislazione razzistica antisemitica di soli tre anni dopo, si verificò nel 1935, quando il governo italiano chiese un intervento ebraico tramite l’Organizzazione sionistica mondiale, che aveva sede a Londra, per scongiurare le sanzioni (del resto mai seriamente applicate) che avrebbero dovuto ostacolare l’aggressione fascista all’Etiopia. Non potendo rifiutare, quella che si chiamava allora l’UCII (Unione delle Comunità Israelitiche Italiane) inviò a Londra una mini-delegazione di due sole persone, che non erano politici o diplomatici ma …intellettuali: Dante Lattes, appunto, e il poeta Angiolo Orvieto.
Il risultato fu totalmente negativo e molto probabilmente fu allora che il regime comprese quanto debole potesse rivelarsi essere l’appoggio dell’ebraismo italiano, ammesso e non concesso che fosse realmente e in maggioranza disponibile. Si doveva “cambiare cavallo”. (…)
Amos Luzzatto – Cultura ed etica ebraica. Scritti scelti di Dante Lattes
(9 settembre 2020)