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Emanuele CalòL’edicolante, dopo avermi anticipato delle notizie ricevute dai soliti mitomani sulla campagna acquisti della Magica, mi ha confessato che, a suo avviso, sarebbero in tanti gli ebrei italiani (non solo romani, ma italiani, quindi comprensivi sia di Civita Castellana che di Trevinano, frazione aquesiana) incapaci di distinguere fra critiche al governo di Israele e antisemitismo. Gli ho spiegato che, a mio parere, è difficile da concepire che si possa ritenere antisemita colui che preferisca Tzipi Livni o Avi Gabbay a Bibi Netanyahu. L’ho anche tranquillizzato spiegandogli che, sì, ne abbiamo viste tante e tante ne vedremo, ma che esista l’epidemia da lui denunciata, pronta a trasformarsi in pandemia, è un’affermazione che meriterebbe un ulteriore approfondimento. Gli ho pure consigliato di parlare di “governo” perché un conto sarebbe, ad esempio, essere critici, per dire, del governo spagnolo, altro sarebbe essere antispagnoli. Chiariamolo, soggiunsi, perché mentre nessuno intende spazzar via la Spagna dalle carte geografiche, vi sono da anni le code per farlo con lo Stato ebraico.
Credete che fosse appagato? Tutt’altro, e quindi gli ho snocciolato qualche osservazione e qualche riflessione, per aiutarlo a sceverare presso l’ebraismo italiano, le legittime critiche alla politica di Israele dal puro e semplice antisemitismo. Anzitutto gli ho ricordato alcuni passaggi della definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance, che comprendono: a) il diniego al popolo ebraico del diritto all’autodeterminazione, ad esempio, tacciando di razzista l’esistenza dello Stato d‘Israele, b) l’applicazione di doppi standard (due pesi e due misure) che richiederebbero da Israele un comportamento che non ci si attende né si chiede da qualsiasi altra democrazia. Farebbero parte del citato novero, secondo un bagarino cognato dell’edicolante, coloro i quali, non avendo il coraggio di ammettere i loro pregiudizi, quando chiedono a Israele ciò che non chiederebbero ad alcun altro Stato, motivano con un eccesso d’amore: ammiro tanto Israele da giudicarla con maggior severità. Un bel privilegio, non c’è che dire.
Ernesto Galli della Loggia, dal canto suo, secondo il salumiere cognato del bagarino, avrebbe aggiunto altri casi (Corsera, 25 gennaio 2017), quando scrisse che le critiche contro la politica israeliana “nulla hanno a che fare con il nostro dovere, di fronte al boicottaggio di cui parlavo prima, di alzare una voce alta e forte che gridi: «Anche questo è antisemitismo! Ogni azione che mira a delegittimare lo Stato di Israele è antisemitismo!” In questi casi, il test dovrebbe comprendere – mi ha spiegato il salumiere – l’esperibilità di soluzioni conformi alle richieste ostili senza che venga meno l’integrità dello Stato. Sarebbero da aggiungere nel novero dei razzisti coloro che hanno il malvezzo – spiegai – di dare la colpa alla vittima e non all’aggressore, convogliando in sede politica gli atteggiamenti abusivi che si verificano nei casi di violenza sessuale. Includerei pure chi formula ragionamenti etnici; per intenderci, si tratta di chi ti risponde: “ci sono ebrei che la pensano diversamente”, quando nessuno si sognerebbe di dire “ci sono italiani che la pensano diversamente”. Eppure, Bob Dylan (al secolo Robert Zimmerman, con nonni fuggiti dai pogrom) l’aveva già detto: “il bullo del quartiere vive soltanto per sopravvivere. È criticato e condannato per essere in vita. Non si suppone che possa reagire…”
Purché si consideri che la norma penale è tipica (nullum crimen sine lege) rammenterei sia all’edicolante che al bagarino ed al salumiere, che l’art. 604 bis c.p. contempla gli atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e disciplina come aggravante la minimizzazione in modo grave o l’apologia della Shoah.
Considererei pure, seguendo l’indicazione di un passante, un paio di volumi che aveva in vendita l’edicolante: Kenneth L. Marcus The definition of antisemitism, Oxford University Press, N.Y., 2015 e Niram Ferretti, Il sabba intorno a Israele: Fenomenologia di una demonizzazione, Lindau, 2017. Marcus cita il criterio di Nathan Sharansky, che traccia i confini fra critica e razzismo laddove si rinvengano la demonizzazione, il doppio standard o la delegittimazione, mentre Ferretti elabora un discorso di diverso ma ampio respiro. Infine, l’edicolante mi ha convinto ad acquistare il vecchio volume di Alan Dershowitz “The case for Israel” (NJ, 2003) il cui capitolo 31 recita: Are critics of Israel Anti-Semitic? Dershowitz sostiene che non gli è mai capitata l’ipotesi dell’edicolante, che riguarda l’esistenza di accuse di antisemitismo a chi critica la politica israeliana (p. 209); in ogni caso, i sostenitori della tesi del distinguo non sono prodighi di esempi.
Sul NYT del 16 ottobre 2001, Thomas L. Friedman (citato anche da Dershowitz) scrisse: “Non è da antisemiti criticare Israele, e dirlo è immorale. Però è da antisemiti additare Israele al ludibrio e invocarne le sanzioni a livello internazionale, senza alcuna proporzione con qualsiasi altro Stato mediorientale, e non dirlo è disonesto”. Mi avviavo verso la metropolitana quando l’edicolante mi s’avvicina trafelato: “Le è caduto questo”, m’informa, con voce resa ansimante dalla corsa. Veramente non m’era caduto nulla ma, sentendomi sempre colpevole, come il George Kaplan piombato su Roger O. Thornhill, risposi meccanicamente di sì, anche perché stavo proprio andando dal dantista, per trovarmi in mano la pregevole ricerca di Enzo Campelli “Comunità va cercando ch’è sì cara. Sociologia dell’Italia ebraica”, Franco Angeli, 2013. A p. 209 trovo un cenno alle “accuse circa la doppia cittadinanza”, che con ogni probabilità si riferiscono, invece, alla c.d. “doppia lealtà”; ne segue una ricerca sulle critiche ad Israele, che però non sembrerebbe contemplare, né nel contenuto né nella bibliografia finale, le seriori acquisizioni in materia, sopra segnalate, un poco come se il contrasto risalente fra tendenze sionistiche e tendenze ispirate a “La nostra bandiera” fosse tramontato per caso fortuito anziché per forza maggiore. E con questo – per concludere con una citazione aulica, tratta da Peppino De Filippo, in Totò, Peppino .. e la Malafemmina – ho detto tutto. O quasi.

Emanuele Calò, giurista