La lezione di A.B. Yehoshua:
“Lingua antica, lingua viva”
È lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua l’ospite d’onore di questa edizione della Festa del Libro Ebraico in Italia. Alle 17, al Teatro Comunale, la sua attesa lectio magistralis su “Il libro ebraico”.
“Gli ebrei – scrive Yehoshua, in un intervento pubblicato ieri da La Stampa – ipotizzavano che le Sacre Scritture li avrebbero preservati dalla tempesta che li minacciava. Ma ci furono scrittori e intellettuali, conoscitori di quei testi, che, ben comprendendo quanto la loro capacità di fornire strumenti di comprensione della nuova realtà fosse limitata, pretesero una svolta. Trasformarono la lingua sacra in un idioma vivo e moderno e, soprattutto, forgiarono una realtà della quale le Sacre Scritture non rappresentavano il cardine ma solo un aspetto. È questa la rivoluzione sionista che riportò il popolo ebraico a lavorare la terra senza che tale occupazione fosse considerata inferiore rispetto allo studio e all’esegesi delle Sacre Scritture, e a possedere un territorio”.
(Nell’immagine Yehoshua visita l’allestimento con il Direttore del Meis Simonetta Della Seta)
In anni recenti si è assistito alla creazione di numerosi musei ebraici in Europa, tra i quali i più rappresentativi sono quelli di Berlino e di Varsavia. Ora anche a Ferrara è sorto un Museo Ebraico di importanza nazionale, incentrato sulla storia degli ebrei italiani a partire dall’epoca romana. Un simile sforzo di preservazione del passato ebraico in Europa è segno della chiusura di un cerchio e di un suggello o di una rinascita? Non dimentichiamo che ci vorrà parecchio tempo, sempre che ciò avvenga, prima che nascano musei ebraici nei Paesi islamici, dove fino all’anno Mille viveva il 90 per cento della popolazione ebraica mondiale. Le tracce di questo ricco passato stanno scomparendo nel mondo musulmano. Ne rimangono in Andalusia, nel Sud della Spagna, dove la simbiosi culturale musulmana-cristiano-ebraica, da noi definita «l’epoca d’oro della cultura ebraica» (della quale ancora oggi musulmani ed ebrei godono i frutti), toccò il suo apice. I nuovi musei ebraici d’Europa intendono forse preservare la tradizione degli ebrei europei prima che questa venga cancellata e offuscata dalla forte presenza politica e culturale di Israele, il Paese dove vive più della metà del popolo ebraico e che attira l’attenzione internazionale a causa dei suoi problemi politici e militari? Oppure è il fenomeno della globalizzazione che ha investito l’intero mondo a indurre le comunità ebraiche a preservare le loro tradizioni locali prima di essere travolte dall’impetuosa galoppata della modernità? O magari c’è una terza spiegazione: ebrei e non ebrei cominciano a essere stanchi e delusi delle vicende di Israele, del suo deterioramento politico e morale, e ad avere nostalgia delle comunità, grandi e piccole, sparse per secoli in tutto il mondo che hanno dato vita, grazie allo studio e all’interpretazione dei testi sacri, a una loro particolare identità. Il termine «Popolo del Libro» fu coniato dai musulmani che, nel Corano, definiscono gli ebrei «Ahal al-Kitab». Benché li considerassero inferiori, non li costringevano a convertirsi all’islam in quanto la religione ebraica godeva di maggior prestigio rispetto a quella pagana. Il diritto degli ebrei e dei cristiani di beneficiare della protezione dei musulmani pur conservando il loro credo scaturiva dal fatto che i loro libri sacri contenevano la parola di Dio, per quanto – dal punto di vista dei musulmani – il messaggio dell’Onnipotente fosse stato da loro travisato. Gli ebrei gradirono questa definizione di «Popolo del Libro» anche se, naturalmente, respinsero la posizione dei musulmani nei loro confronti. E a proposito del forte legame tra le Sacre Scritture e gli ebrei, il maggior esponente degli studi di ebraismo, il professor Gershom Scholem, scrisse: «Il popolo ebraico, che da un punto di vista biologico non era certo degno di maggior attenzione di qualunque altro popolo dell’antico Vicino Oriente estinto da tempo, comparve sulla scena della storia insieme al suo Libro. Il popolo e il Libro erano dunque intrecciati, sia nella coscienza degli ebrei sia in quella del mondo». E in effetti nella coscienza storica ebraica il «Libro» è antecedente la madrepatria. In altre parole è la Torah che Mosè diede ai compagni nel deserto del Sinai a concedere al popolo la legittimità di possedere un territorio, a patto che il popolo rispetti le condizioni dell’autore di quel testo – sia questi Dio o Mosè. Così, mentre per tutti gli altri popoli l’identità è definita dall’appartenenza a un territorio (incondizionato fondamento del diritto nazionale), per il popolo ebraico, formatosi nel deserto, l’identità è definita dalla sua lealtà alle Sacre Scritture e il diritto di possedere una patria non è naturale ma è garantito dall’autore dei testi sacri che sottopone il suo popolo anche a continui esami sul loro contenuto. I vantaggi di avere dei testi sacri come cardine della propria identità nazionale non sono trascurabili ma, d’altro canto, non lo sono nemmeno gli inconvenienti, i pericoli e le insidie. Il fatto di avere costruito un’identità nazionale su tali testi ha permesso agli ebrei di mantenere la loro identità anche al di fuori della madrepatria. Non dipendendo infatti, come altri popoli, da un territorio, erano in grado di restare uniti grazie alle Sacre Scritture, malgrado fossero dispersi per il mondo, di corrispondere e di discutere sulle diverse interpretazioni dei testi, mentre la base comune dalla quale quelle interpretazioni derivavano si manteneva solida. Le guerre civili fra gli ebrei non furono combattute a colpi di spada bensì di penna, e il sangue versato era inchiostro. La radicata abitudine a leggere, a scrivere e il continuo lavoro di esegesi permisero agli ebrei che frequentavano istituzioni religiose di confrontarsi con maggiore facilità con i testi di altri popoli, cristiani o musulmani, di assimilarli alla loro terminologia, ai loro concetti, e di integrarsi rapidamente nello sviluppo moderno. Tuttavia, come in altre religioni, ci sono stati, e ci sono ancora, molti studiosi che sono rimasti intrappolati in quei testi, rinchiusi fra le mura dei collegi biblici e completamente distaccati dalla vita che scorre intorno a loro. In Israele ci sono tutt’oggi decine di migliaia di studenti di yeshiva (centri di studio di testi sacri) che, pur essendo padri di famiglia, si dedicano allo studio dei testi antichi sforzandosi di trovare sempre nuove e originali interpretazioni in cambio di un misero sussidio e dell’esenzione dal servizio militare. E benché si autodefiniscano appartenenti a «gruppi di studio» e le comunità religiose ortodosse intorno a loro li trattino con rispetto, sono ben lontani dall’essere colti. Non conoscono le lingue straniere, il mondo delle scienze è loro estraneo e ignorano le discipline sociali e la letteratura del mondo laico. Non c’è dubbio che questo tipo di identità imperniata sui testi sacri, oltre a preservare per secoli il popolo ebraico, ha anche contribuito a una sua drastica diminuzione in termini di numero. Dopo la distruzione del Secondo Tempio, nel 70 d.C., c’erano tra i due e i tre milioni di ebrei nel mondo, mentre all’inizio del XVIII secolo ne era rimasto un solo milione. Non tutti riuscivano a mantenere la propria identità nazionale mediante rituali religiosi e lo studio delle Sacre Scritture. Attività di questo tipo richiedono tempo e, in mancanza di un’adeguata retribuzione, possono essere causa di grande indigenza. Verso la fine del XIX secolo, con il consolidamento del nazionalismo secolare in Europa, i testi sacri ebraici divennero un ostacolo per la comprensione della nuova realtà. Gli ebrei ipotizzavano che le Sacre Scritture li avrebbero preservati dalla tempesta che li minacciava. Ma ci furono scrittori e intellettuali, conoscitori di quei testi, che, ben comprendendo quanto la loro capacità di fornire strumenti di comprensione della nuova realtà fosse limitata, pretesero una svolta. Trasformarono la lingua sacra in un idioma vivo e moderno e, soprattutto, forgiarono una realtà della quale le Sacre Scritture non rappresentavano il cardine ma solo un aspetto. È questa la rivoluzione sionista che riportò il popolo ebraico a lavorare la terra senza che tale occupazione fosse considerata inferiore rispetto allo studio e all’esegesi delle Sacre Scritture, e a possedere un territorio. Negli Anni 30 del secolo scorso c’erano a malapena trecentomila ebrei in Terra di Israele mentre nella diaspora ne erano presenti circa sedici milioni. La maggior parte degli scrittori viveva in comunità in cui l’ebraico era già una lingua viva e i testi sacri non erano al centro della loro realtà ma ne facevano semplicemente parte. E così disse in maniera provocatoria il nostro poeta nazionale, Chaim Nachman Bialik: «Il concetto di cultura in ogni popolo include varie forme di vita, dalla più bassa alla più alta. Cucire scarpe o pantaloni, lavorare la terra, tutto questo è cultura. Tutto è cultura, tutto è una miscela di spirito e materia». I libri, le Sacre Scritture, facilmente trasportabili da un luogo all’altro, sono riuscite a preservare il popolo ebraico per migliaia di anni nella diaspora. D’altra parte, però, venendo a sostituire un territorio – prima garanzia di sicurezza – sono state anche motivo di detrimento.
Abraham B. Yehoshua, La Stampa
(10 giugno 2018)