Le parole di Liliana

torino vercelliAl netto di alcune gratuite volgarità circolate sui social network a commento delle sue parole, il primo discorso della senatrice a vita Liliana Segre è chiaro ed incontrovertibile. Non costituisce una concessione ai buoni sentimenti né un esercizio di illusoria benevolenza. Semmai è la richiesta che sia rispettato il vincolo della solidarietà sociale e che il rimando alla democrazia non siano un estemporaneo e intollerabile esercizio di ipocrisia, buono magari per fare la giusta figura quando nulla costa, salvo poi revocarla nel nome del “bisogno” (di sicurezza, di tutele, di garanzie). Il tutto si condensa in una frase, il cui contenuto è incontrovertibile: «Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà democratica possa essere sporcata da progetti di leggi speciali contro i popoli nomadi». In tempi di eccezionalità e di “eccezionalismo”, dove non pochi ritengono che la risposta ai loro problemi possa essere data da forzature nello stato di diritto – pensando magari che le scorciatoie siano, nella peggiore delle ipotesi, un problema per gli “altri” ed un vantaggio per sé – affermare che la giustizia sociale riposi nel rispetto dei diritti è di per sé un atto politico. Nel senso di qualcosa che va oltre l’appartenenza, o il riconoscersi, con uno schieramento piuttosto che con un altro, rivolgendosi piuttosto per intero alla collettività. Poiché non è un discorso che rimandi ad altra identità che non sia quella dettata dal sentirsi parte di un concreto consesso umano. La qual cosa dovrebbe dettare un ragionevole amore proprio, basato sulla consapevolezza che le proprie libertà riposano nel rispetto altrui e viceversa. Così anche nel caso dei diritti comuni, soprattutto quando questi vengono in qualche modo lesi da condotte che sono socialmente riprovevoli e quindi sanzionabili con le leggi e le misure già esistenti. Non è un galateo tra i damerini delle aborrite «élite radical chic» ma un’esigenza di vivibilità democratica. Non si tratta di “volere bene” agli “zingari” né, tanto meno, di non intendere cogliere i disagi ed anche le offese che possono intervenire a causa di condotte inaccettabili, quand’esse dovessero verificarsi. Semmai, come dice chiaramente Segre, i sentimenti (così come gli eventuali risentimenti, quand’anche censurabili) si debbono confrontare con la legge e quest’ultima con il senso del limite umano, ossia con la tutela della dignità dell’essere vivente all’interno di una società decorosa e decente. Senza ciò, infatti, il rischio è che si introduca dalla finestra, magari di soppiatto, gabellandolo per un provvedimento minore e comunque destinato a colpire soggetti ritenuti tendenzialmente “asociali”, un precedente che è invece destinato a fare scuola. Perché in queste circostanze si sa da dove si inizia ma non dove si andrà a parare. Se c’è qualcosa di molto sgradevole e tendenzialmente pericoloso è l’incoscienza con la quale, nel passato ma anche nel presente, c’è chi invoca, dinanzi al proprio disagio, la sua attenuazione attraverso una visione punitiva e regressiva delle relazioni sociali. Non rendendosi conto che la riduzione degli spazi di sopravvivenza di una minoranza (poiché di ciò si tratta, non di altro), rischia di rivelarsi la premessa per ulteriori inasprimenti contro altre minoranze prima, e poi per il riallineamento autoritario della maggioranza. Storicamente, le cose hanno funzionato in questi termini, che possa piacere o meno il loro odierno riscontro. Chi fa spallucce, chi si crede al di sopra o al di fuori della mischia, rischia a sua volta, un giorno, di dovere rendere conto di se stesso dinanzi ad un qualche inflessibile giudice, che lo condannerà non per ciò che avrà fatto ma per quanto gli altri gli attribuiranno. Senza appello. Non si tratta di levare facili invettive né di urlare al lupo, quand’esso di sé ha mostrato solo un pelo spelacchiato. Si tratta, invece, di intendere che la democrazia è una costante vigilanza partecipata; di capire che i diritti di tutti, quando iniziano ad essere revocati a certuni, sono comunque a rischio per ognuno di noi; di non farsi ingannare, dinanzi al reale bisogno, rispetto a ciò che è presentato come risposta razionale quando invece sospende proprio il ragionamento politico, per favorire l’aggressione, la stigmatizzazione, l’emarginazione definitiva. Questa ci consegnano le parole della senatrice Segre, che svolge per l’appunto il suo compito, quello di votare in coscienza, dopo avere motivato le sue scelte, in rappresentanza della società italiana. Che comprende anche i sinti, i rom e quant’altri. Senza eccezioni di sorta.

Claudio Vercelli

(10 giugno 2018)