Il caldo

valentina di palmaTanto atteso, sospirato ed invocato, è arrivato il caldo. Finalmente, dicono i più (io al fresco in realtà tanto male non sto, ma a giugno non potrei aspettarmi diversamente, sospiro). Non so se le statistiche mi darebbero ragione, ma sospetto che il caldo infiammi gli animi e renda più animate le discussioni. Fatto sta che mi ritrovo a dibattere sull’osservanza religiosa.
Argomento spinoso, ritengo, da non trattare né con gli atei fanatici (quella categoria di atei i quali, un po’ come quel tipo di vegani che assaltano le macellerie, sono talmente convinti da fare dell’ateismo il proprio credo, al pari di una fede religiosa), né con gli esponenti di altre confessioni – anche qui, non so perché di solito ne incontro di due categorie opposte: o quelli che ti guardano con malcelata diffidenza, o viceversa gli e-n-t-u-s-i-a-s-t-i di quanto sia bello l’ebraismo e voi ebrei siete tutti così intelligenti (di solito non ribatto, non conviene, anche se ascoltando penso a diversi correligionari che conosco e che intelligenti non sono). Eppure in media virtus, da qualche parte ci saranno anche i moderati, o no?
Comunque, tornando ad un’afosa serata di qualche giorno fa, eccomi condotta su un terreno assai scivoloso, quello appunto dell’osservanza. Non tanto di quanto si possa essere osservanti (nella fattispecie, ero oggetto di critiche neppure tanto velate), semmai del tipo di osservanza. Secondo il mio interlocutore, che forse pensava ai quattro figli del Seder di Pesach, esistono tre tipi di ebrei: i non osservanti, quelli osservanti i precetti esteriori, ed infine quanti praticano le mitzvot interiori.
E la questione postami era: è più facile osservare regole pratiche, materiali, che possono essere studiate, apprese, trasmesse, che tenere sempre a mente quelle interiori. Tradotto: è più semplice non accendere la luce di Shabbat e lasciare il telefono in un cassetto, che salutare chi riteniamo abbia commesso uno sgarbo nei nostri confronti o non fare lashon harà nei suoi confronti. Ma la vera sfida, sempre secondo il mio interlocutore, sarebbe applicare le mitzvot interiori, quelle di rispetto del prossimo (anche di quanti tra il prossimo non ci sono particolarmente simpatici). Ma non potremmo cercare di coniugare i due tipi di ebrei in uno, provo timidamente a ribattere – va bene, forse non tanto timidamente, lo ammetto – e tentare di osservare sia quelle che tu chiami mitzvot pratiche sia quelle interiori? Tu, mi viene detto in tono accusatorio, se ti si dà un dito di osservanza poi pretendi tutto.
Sarà vero? Farò sbollire il malumore (che mi porterebbe a non osservare diverse mitzvot interiori) andando a kasherizzare il bollitore di Shabbat su cui era stato purtroppo appoggiato del salame il cui grasso potrebbe essere colato nei fori di sfiato del vapore…una bella mitzvà pratica, così ho qualcosa da fare che mi permetta di non pensare.

Sara Valentina Di Palma

(14 giugno 2018)