Il male della banalità
Poche parole ad intenditore, per così dire. La cialtroneria fatta passare per esuberanza e spontaneità, il parassitismo gabellato per diritto, l’incompetenza trasmutata in genuinità, la mascalzonaggine trasformata in intraprendenza, non sono vizi occasionali dello spirito ma elementi di distruzione del tessuto sociale. È valso per il passato, vale per il presente, varrà non di meno per il futuro. Non attenua la durezza di tale riscontro il fatto che dietro agli opportunismi di ogni genere e risma, buoni per qualsiasi stagione, ci sia anche il sincero lamento della creatura ferita, della società che si sente tradita, della comunità che si avverte abbandonata e che reclama legittimo riconoscimento. Tutti gli autoritarismi, ogni regime di regressione, qualsiasi sistema di nuova oppressione si sono presentati alle collettività come “liberatori”. E come inediti, “nuovi”, a volere dire che con essi il regime delle virtù sarebbe subentrato a quello delle depravazioni. Si tratta di orwellismi, ossia di capovolgimenti del significato delle parole e del senso della cose nel loro contrario. Spacciandone l’effetto come qualcosa di rivoluzionario quando, invece, è unicamente un esercizio reazionario. Per ottenere questo risultato da sempre i mestatori soffiano sul fuoco delle angosce sociali: la paura di non avere un futuro certo, il timore per ciò che non si conosce e non si vuole conoscere, a partire dalla propria concreta immagine riflessa in uno specchio, l’ansia di essere retrocessi socialmente. Gli allocchi ci cascano, seguendo i pifferai; pochi altri, invece, cercano di resistere, venendo però trascinati dall’onda d’urto della slavina della ragione. Ci sono modi bislacchi di intendere le cose, a partire da vuote identificazioni che ricalcano i trascorsi senza nulla restituirci della veracità dei cambiamenti nel presente. In questo senso, usare parallelismi con ciò che fu (il fascismo, il nazismo, il comunismo stalinista), serve a nulla, rafforzando semmai le polarizzazioni di giudizio precostituite, trasformate in granitiche tifoserie. Così come il ripetere pedissequamente e stoltamente termini che se hanno un senso (ad esempio “destra” e “sinistra”) è perché non li usa solo ed esclusivamente per neutralizzarne il significato storico, o come anatemi nei confronti della controparte. La storia non si ripete mai ma possono senz’altro ripresentarsi singoli elementi di essa. Quando questi si dispongono in una certa costellazione, allora i rischi aumentano. La banalità è il male dell’uomo contemporaneo. Erigerla a sistema di governo di una società, non importa quale, spacciandola per autenticità e semplificazione, è un peccato capitale. Poiché a perdere la testa, prima o poi, è la società stessa, che viene decapitata dalle sue medesime contraddizioni irrisolte. Nessuno potrà allora dirsi vergine di responsabilità, anche se i molti, che già lo fecero un tempo, si può stare certi che potrebbero essere tentati di rifarlo, qualora se ne presentassero le circostanze. C’è tuttavia una profonda etica delle responsabilità dalla quale non si può in alcuno modo deflettere. Se si rimane esseri umani. Il resto è solo un opaco orizzonte di notte e nebbia, laddove si sa da quale punto si parte ma non verso quale meta ci si sta spingendo.
Claudio Vercelli