Orizzonti – Nella mia Aleppo una lingua in codice per sopravvivere
Khaled Khalifa / NON CI SONO COLTELLI NELLE CUCINE DI QUESTA CITTÀ / Bompiani
Cinque anni fa, nel 2013, sono stato ad Aleppo per l’ultima volta, dopodiché la mia città si è dispersa in tanti frammenti, in foto e video, immagini e notizie delle agenzie di stampa che hanno provato a trasformare Aleppo in un luogo virtuale o, quantomeno, irreale, a me sconosciuto. Mi sono rifiutato di credere a quel che accadeva laggiù; ho pensato che sarebbe stato meglio vivere negando, in seguito avrei trovato il modo per ritornarci di nascosto. Per questo, evitavo di guardare le foto. Potete immaginare quanto sia stato difficile per me superare quel bombardamento di immagini, eppure, in parte ci sono riuscito. La mia idea era semplice: guardare la distruzione di qualche altro posto, a me più vicino fisicamente (attualmente vivo a Damasco) – si trattava pur sempre, in ogni caso, del mio Paese – per rimandare l’incubo a un altro momento. Ma ricordo che l’immagine della città che conservavo nella mia mente era anche intrisa di indignazione e di rabbia, per tutto ciò che era accaduto laggiù negli ultimi trent’anni; da quando ero solo un ragazzino ribelle che odiava quell’immagine da cartolina di Aleppo e non credeva nell’orgoglio.
La fuga vent’anni fa
Scappai via da Aleppo, come se fossi braccato, nel 1998. Non potevo più tollerare la violenza che si annidava ovunque. La città veniva annientata, giorno dopo giorno, davanti ai miei occhi; vedevo la sua immagine brillante appannarsi e la vedevo rinunciare alla sua fierezza; sentivamo che vacillava avvolta da una impalpabile foschia. E noi, i suoi figli, non avevamo mai smesso di compiangerla, sin dal 1980, quando era scoppiato il conflitto tra il regime e l’esercito del regime da una parte e il partito dei Fratelli Musulmani dall’altra. Non era stata una guerra devastante, ma necessaria al regime per addomesticare tutta la Siria, in particolare Aleppo, e dichiarare che l’intero Paese era stato messo in ginocchio, e che il popolo avrebbe imparato cos’era l’umiliazione e camminato a testa bassa per secoli. Il regime era convinto che tutto sarebbe finito, che l’ordine sarebbe stato ripristinato, e anche noi avevamo la sensazione che sarebbe stato impossibile uscire da quella bottiglia in cui eravamo stati infilati e che «non aveva più nemmeno un collo stretto», una bottiglia sigillata per sempre. Ci eravamo trasformati in cavie da laboratorio e, una volta scaduto il periodo di garanzia, ci avrebbero buttati nell’immondizia e loro avrebbero riprodotto cavie più mansuete, disposte a obbedire ciecamente. Vedevamo con i nostri occhi quella folle devastazione messa in atto per estirpare la città alla radice, con il pretesto della guerra contro i Fratelli Musulmani; vedevamo come la città sconfitta cadeva nelle mani del regime, e anche come gli abitanti di Aleppo tornavano a servirsi, ancora una volta, di un codice segreto per poter vivere, aggiungendo a questo codice nuove parole e nuove espressioni. Quegli anni coincisero con l’inizio della mia adolescenza e, come tutti i figli della città, ricevetti anch’io dalla mia famiglia le prime lezioni su quella vita segreta e su quella lingua in codice che dovevo assolutamente usare se volevo sopravvivere. Sopravvivere era diventato l’obiettivo principale per tutti coloro che abitavano in quel posto chiamato Siria e, specialmente, nelle città di Aleppo e di Hama. Eppure non avevamo il tempo per sentirci vittime. La città ci avvertiva ogni mattina che in fondo nulla era cambiato e che, se volevamo essere degni figli di Aleppo, dovevamo capire che il vittimismo era inutile.
Tra gli odori del suq
Tutto ciò che si vedeva nelle strade e negli edifici storici era un’illusione ottica: camminavi intorno alla Cittadella e vedevi soltanto un edificio imponente come tutte le altre cittadelle del mondo; non potevi scorgere quel che si nascondeva dietro: tante storie e le prigioni segrete; entravi nell’antico suq, il mercato coperto, e camminavi per ore prima di girarlo tutto, e non sapevi che l’immagine di quel suq, intriso dell’odore di tutte le sue mercanzie, rimandava ad altre immagini, a quelle di tutti gli imperi che si erano succeduti, si erano combattuti e poi erano scomparsi, e il suq rimaneva come un unico testimone della loro estinzione. In quel suq coperto e tra le sue botteghe Francia e Gran Bretagna si erano combattute per imporre la propria influenza sul territorio; li si era svolta la battaglia tra cattolici e ortodossi; consoli di Paesi stranieri e collezionisti di arte vi erano vissuti in completo relax; sempre lì, in quel luogo, erano stati orditi i più grandi complotti della storia; quindi, quel che si vedeva oggi erano i resti di una lunga storia carica di sangue, dubbi e delusioni; una vera scuola dove poter apprendere la lingua segreta che la città ha insegnato ai suoi figli nel corso delle varie epoche, così come ha insegnato loro la diffidenza, e a guardare gli stranieri con occhi pieni di dubbio e scetticismo.
Khaled Khalifa, La Stampa, 19 giugno 2018