PERSONAGGI “Ben Gurion, Israele a ogni costo”
“Volevo capire chi fosse Ben Gurion nella vita reale. Non quello di pietra o di metallo delle statue, non quello di carta dei poster. Quello in carne ed ossa. Volevo capire perché ha preso determinate decisioni, conoscere il suo carattere, le sue debolezze, sapere se aveva momenti in cui si sentiva depresso e se questo influisse sulle sue azioni”. Non a tutti piacerà l’ampia e documentata indagine condotta dallo storico israeliano Tom Segev su uno dei padri fondatori dello Stato d’Israele: David Ben Gurion. Nel suo libro Ben Gurion, uno Stato ad ogni costo (già pubblicato in Israele e in Germania, e presto disponibile in inglese), Segev svela l’uomo al di là del mito, che vive momenti di spensierata allegria ma al contempo si sente incastrato in una sofferenza che quasi lo annichilisce. “Anche nei miei momenti di felicità non posso liberarmi dalla sofferenza del profondo dolore che è penetrato in tutto il mio essere. Non posso sopportare l’angoscia della mia mente – è una sorta di inferno interiore per me”, una delle tante citazioni di Ben Gurion riportate dallo storico nel suo libro, in cui scopriamo i suoi ripetuti tradimenti alla moglie, la sua difficoltà nel tenersi gli amici (“non era un tipo simpatico”, spiega Segev), i suoi cambiamenti di umore repentini, i colpi di testa, le decisioni folli. È un Ben Gurion molto umano ma allo stesso tempo lontano dal mito in cui molti sono cresciuti. Non che nell’autobiografia di Segev non vi sia il Ben Gurion visionario, quello brillante, capace di sintetizzare lo spirito dello Stato ebraico in una frase: “In Israele per essere realisti bisogna credere ai miracoli”. Ma l’abilità dello storico israeliano, in questo caso, è portare il lettore a vedere il volto nascosto della luna, a vedere quella parte di Ben Gurion che pochi conoscono. L’uomo e non il mito. E chi non è disposto a farlo, non si appresti a leggere il lavoro di Segev – intervistato da Pagine Ebraiche per capirne la genesi – perché incorrerà in diverse delusioni.
Cosa l’ha spinta a scrivere una biografia di Ben Gurion?
È un personaggio che mi ha sempre affascinato e negli ultimi anni molto materiale su di lui è diventato disponibile. Non è un caso se in Israele negli ultimi cinque anni sono uscite quattro biografie dedicate a lui. Io volevo raccontare il Ben Gurion lontano dalla mitizzazione; volevo far capire alle nuove generazioni chi è quell’uomo a cui è dedicato il principale aeroporto israeliano. È stato un percorso affascinante durato sei anni, in cui ho scoperto molte cose su di lui. Ho letto il suo diario, che ha tenuto praticamente fino al giorno prima di morire. Molti lo hanno fatto prima di me, ma cercavano soprattutto di capire il Ben Gurion politico. Io ho letto i suoi infiniti sbalzi emotivi, ho imparato a conoscere la sua miseria e la sua solitudine, i suoi desideri d’amore. A renderlo così affascinante è proprio questa forza d’animo che lo porta ad analizzare i suoi comportamenti in modo coraggioso. È sorprendente quanto siano intime le pagine del suo diario e le sue lettere. Ho quasi avuto la sensazione che stesse scrivendo tutto questo per i suoi futuri biografi, quasi implorando, ‘Per favore capitemi, raffiguratemi come ero davvero’”.
Quindi al di là del mito costruito attorno a lui?
Sì, ma c’è da dire che parte della sua rappresentazione di grande statista capace di prendere decisioni difficili ha un fondamento. In quasi tutte le situazioni, Ben Gurion proietta la sensazione di sapere cosa si deve fare, e in questo senso assomiglia ad altri leader, come Lenin e Churchill – che lui apprezzava molto – che hanno creduto nella necessità di rimodellare il destino del proprio popolo e hanno creduto nella loro capacità di farlo. La gente credeva in lui perché Ben Gurion credeva in se stesso. Io però ho lavorato per approfondire la figura che stava dietro a queste decisioni. Non solo per curiosità e pettegolezzi, ma per capire meglio noi stessi”.
Chi era quindi Ben Gurion?
Un sionista prima di tutto. La motivazione che guidò la sua vita fu la costruzione di uno Stato ebraico. Il sionismo di Ben Gurion era diretto a realizzare uno Stato ebraico indipendente nella Palestina mandataria con più ebrei possibile, con più terra possibile e con meno arabi possibile. Tutto il resto per Ben Gurion era meno importante, il socialismo, la democrazia, a volte la legge, a volte la verità. Tutto era meno importante per lui rispetto ad avere uno stato: uno Stato ad ogni costo, questo è il nome del mio libro e questo è il principio che lo ha guidato.
E la pace dove si colloca nel pensiero di Ben Gurion?
Lui disse pubblicamente e quasi dall’inizio (già nel 1919) che non potrà mai esserci pace tra israeliani e arabi. E spiegò anche il perché: questo è un conflitto nazionale e non esiste un popolo disposto a lasciare il proprio paese per un altro. Sia gli ebrei, sia gli arabi, vogliono la Palestina, tutta la Palestina, come parte della loro identità nazionale. È quindi c’è una divisione che non può essere sanata. È vero che Ben Gurion ha parlato più volte di pace ma ha anche spiegato che altrimenti nessuno al mondo avrebbe sostenuto il sionismo, nessun ebreo sarebbe venuto in Palestina sapendo che la prospettiva era una vita scandita da una guerra dopo l’altra. Per Ben Gurion il prezzo dell’indipendenza dello Stato d’Israele nel Mandato britannico era una vita senza la pace. Ma nonostante questo nella primavera del 1947 Ben Gurion cercò di prorogare il mandato britannico per cinque o dieci anni. Quest’uomo che sognava per tutta la vita uno Stato ebraico – uno Stato che sembrava così vicino – chiese improvvisamente agli inglesi di non lasciare la Palestina. Lo stava facendo perché le sue forze non erano pronte per la guerra. E questo è principalmente a causa sua.
Israele oggi è una nazione solida e prospera ma effettivamente una pace con i palestinesi non è stata raggiunta. Questo è lo Stato che Ben Gurion aveva sognato?
Quello che succede ora con i palestinesi in realtà contraddice le sue idee ovvero, per dirla chiaramente, che il sionismo ha bisogno di meno arabi all’interno dello Stato possibile. Nel 1948 Ben Gurion – che era favorevole alla partizione della Palestina mandataria – evitò di occupare Gerusalemme Est, la Cisgiordania e Gaza perché quei territori erano già popolati dai rifugiati palestinesi. E lo stesso pensiero ebbe 20 anni dopo, quando non era più in carica, alla vigilia della guerra dei sei giorni: lui era contro l’occupazione dei territori. Suggerì di fare un accordo di pace chiaro e in cambio restituire subito tutti i territori. Questo, come sappiamo non è successo. D’altra parte, credo che Israele oggi rappresenti uno dei più incredibili successi della storia del Novecento. Se guardiamo a risultati che ha ottenuto, ai parametri economici, nella sanità, nell’accademia, Israele su oltre 100 paesi in molte classifiche risulta nella top 15. In più Israele è un paese democratico. Quindi la maggior parte degli israeliani vive vite migliori rispetto al resto del mondo e lo fa in una democrazia: il sogno di Ben Gurion, da questo punto di vista, è stato esaudito.
In un’intervista che ha rilasciato alla rivista tedesca Der Spiegel, si allude al fatto che Ben Gurion viaggiasse spesso e la collega alla sua inquietudine e insoddisfazione.
Sì, lui passava molti mesi in viaggio, all’estero. Era costantemente inquieto e credo che alla fine non fosse felice in Israele. In realtà è rimasto profondamente deluso da questo paese e dalla sua società. La società che aveva sognato, il paese che aveva sognato erano europei. Ma la Shoah distrusse questo sogno: non è un caso se lui la vedeva prima di tutto come un crimine contro lo Stato d’Israele. “Prima avevamo un popolo senza una terra, ora abbiamo una terra senza popolo”, disse. Per questo Ben Gurion si rivolse in seconda battuta agli ebrei del mondo arabo che furono a lungo emarginati nella società israeliana. Ed è qui che nacque la divisione che ancora esiste all’interno d’Israele tra ashkenaziti e sefarditi, seppur la situazione sia nettamente migliorata.
Lei ha parlato delle contraddizioni d’Israele rispetto al sogno di Ben Gurion, ma come vede uno storico il futuro di questo paese?
Non sono uno a cui piace fare previsioni. A malapena conosco il passato, figuriamoci il futuro. Se mi avesse chiamato 40 anni fa, le avrei detto che sicuramente nel 2018 la pace con i palestinesi sarebbe stata realtà e che la guerra sarebbe stata un fatto del passato. Mi sono sbagliato, evidentemente. Oggi sono molto pessimista, vedo la democrazia israeliana in serio pericolo ma è possibile che io mi stia sbagliando ancora. Lo spero.
Tom Segev è uno scrittore, giornalista e storico israeliano. È conosciuto per le sue opere specializzate nella storia contemporanea di Israele e sulla Shoah ed annoverato tra i “Nuovi storici israeliani”, secondo la definizione di Benny Morris. Appellativo che però Segev contesta: “Non credo che la mia generazione possa essere definita di nuovi storici ma semplicemente eravamo i primi veri storici d’Israele. Con noi si aprirono molti archivi che fino ad allora erano secretati e così iniziò un vero lavoro sul passato d’Israele”. I genitori di Segev fuggirono dalla Germania nazista nel 1935 e s’insediarono nella Palestina mandataria. Il padre fu ucciso nella Guerra del 1948. Tra i suoi libri più famosi, Il Settimo milione e 1967: Israele, la guerra e l’anno che trasformò il Medio Oriente.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche, giugno 2018