Orizzonti – L’Onu e i Diritti umani, le (fondate) ragioni Usa per uscire dal Consiglio

Via dal Consiglio Onu per i Diritti umani: la decisione, ventilata da tempo dall’America di Trump e formalizzata ieri, può essere letta come la conferma della volontà del presidente Usa di ritirarsi da istituzioni e accordi multilaterali — il patto di Parigi sull’ambiente o quello sul nucleare iraniano — nei quali Washington si era impegnata durante l’era Obama. Sicuramente c’è anche questo nella decisione comunicata ieri dal segretario di Stato, Mike Pompeo, e dall’ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite, Nikki Haley. Ma l’Unhrc, questa la sigla del consiglio, ha sempre funzionato in modo distorto: egemonizzato da Paesi spesso governati da dittatori assai poco rispettosi dei diritti umani, ha fatto della condanna di Israele la sua costante. Se oggi anche Paesi vicini gli Usa criticano la scelta di Trump, è il caso del ministro degli Esteri britannico Boris Johnson, ciò dipende da considerazioni di opportunità, non da un dissenso di sostanza: meglio restare in un organismo gestito in modo discutibile per cercare di condizionarlo e di riformarlo, piuttosto che andarsene sbattendo la porta. Ma stavolta non si può dire che Trump non sia stato coerente con la politica dei conservatori americani e che non abbia provato a temporeggiare in attesa della riforma di un organismo che nei suoi primi dieci annidi attività ha condannato 68 volte Israele, 20 volte la Siria, 9 volte la Corea del Nord, 6 volte l’Iran e mai altri Paesi come Venezuela, Arabia Saudita e Cina che in materia di diritti umani non hanno di certo tutte le carte in regola. L’America ora reagisce alle censure subite perla separazione delle famiglie degli immigrati clandestini rimpatriati: «Un organismo nato da una visione nobile è diventato un ente che funziona in modo perverso», denuncia Pompeo. «Coi suoi pregiudizi condanna Paesi non colpevoli mentre coi suoi silenzi tollera gli abusi di chi viola davvero i diritti umani». Parole forti ma non infondate, visto che è la stessa struttura del Consiglio a rendere difficile la creazione di maggioranze rispettose dei diritti umani: l’organismo ha 47 membri eletti dall’Assemblea generale che, però, deve dare una maggioranza di seggi (13 più 13) all’Africa e all’Asia. Altri 8 vanno al Sud America e ai Caraibi e 6 all’Est europeo. Solo 7 seggi perla Ue e il resto dell’Occidente. Quando il consiglio venne creato nel 2006 gli Usa rimasero fuori per il rifiuto di Bush di avallare una simile composizione. Diventato presidente nel 2009, Barack Obama decise di entrare per cercare di riformarlo dall’interno. Non c’è riuscito e anche i tentativi fatti dalla Haley sono finiti nel nulla. Anche la modifica delle regole per l’espulsione degli Stati che violano i diritti umani (voto a maggioranza semplice anziché dei due terzi come avviene oggi) sembrava cosa fatta ma non è passata. Effetto della rigidità di un organismo nel quale siedono Paesi come il Venezuela, Cuba, Arabia, l’Egitto e le Filippine, mentre l’Occidente, oggi, è rappresentato da Regno Unito, Australia, Spagna e poco altro.

Massimo Gaggi, Corriere della Sera, 21 giugno 2018