Il ballo interrotto
Forse si fatica a capire che una cosa è tanto più preziosa dal momento che erroneamente la si dà per acquisita una volta per sempre: quando dovesse mancare, infatti, la sua indisponibilità risulterebbe tanto inspiegabilmente repentina quanto drammatica, se non tragica. Così per la libertà che, evidentemente, non è astratto concetto ma un insieme di concrete condizioni, alle quali abitualmente non pensiamo poiché le concepiamo come ovvie, quando invece tali non sono mai. Poiché vanno rigenerate costantemente, di volta in volta, soprattutto di generazione in generazione. Ciò che più inquieta, ad onore del vero, è che intorno a parole fondamentali del nostro lessico – in quanto indicano qualcosa per noi di non negoziabile, di incedibile e insindacabile – si sia spesso creata una grande confusione. La libertà non è il frutto di una concessione ma un insieme di diritti il più delle volte strappati, nel corso del tempo, a chi della loro assenza traeva invece beneficio illimitato esclusivamente per se stesso. La libertà non è mai licenza ma sempre e comunque un vincolo di reciprocità, trattandosi non di un potere assoluto conferito all’individuo ma di un insieme di opportunità offerte ad una collettività. La sua cornice sta, per l’appunto, nell’essere garantita a tutti gli individui. Altrimenti non è più tale, trasformandosi in privilegio per chi ne può godere e in dannazione per chi ne è escluso. Anche per queste ragioni fa riflettere quella che in sé sarebbe una notiziola di sgradevole colore quando, a ben pensarci, rischia invece di rivelarsi un segnale di qualcosa di molto più infelice. La famosa punta dell’iceberg. In Ungheria, l’Opera nazionale ha deciso di sospendere le rappresentazioni della versione musicale e teatrale di «Billy Elliot», in cartellone a Budapest. La decisione segue al tambureggiare del quotidiano conservatore Magyar Idők, molto vicino al partito del premier Viktor Orbán. Più volte il giornale si è espresso contro il musical, ritenendo i suoi contenuti corruttori del carattere dei giovani “magiari”. Chi non conoscesse l’opera in questione, sappia che si rifà all’omonimo film del 2000, firmato da Stephen Daldry ed ispirato alla storia autentica del ballerino Philip Mosley. Ambientato nell’Inghilterra degli anni della Thatcher, durante il lunghissimo sciopero dei minatori, seguito alla volontà governativa di procedere alla chiusura delle miniere, è una vicenda di modestia e orgoglio, di subordinazione e riscatto, di dipendenza ed emancipazione. William “Billy” Elliot, ragazzino di 11 anni, cresciuto nell’ambiente rude e machista (ma anche a tratti disperato) della working class britannica, lascia la boxe – verso la quale invece il padre lo aveva indirizzato – per cercare di dare seguito a quella che scopre essere la sua autentica vocazione, la danza classica. Inutile dire che, nel gioco dei contrasti non solo culturali ma anche di ordine socioeconomico, la scelta del ragazzino avrà molti effetti, a partire dall’incomprensione e poi dall’ostilità di una parte dell’ambiente circostante. La morale di fondo è abbastanza chiara: ogni gesto di consapevole autonomia individuale è sempre un atto di libertà che, come tale, implica tuttavia dei prezzi da pagare. Oltre ad una profonda determinazione. Questo discorso, in sé del tutto ovvio, che molto ha a che fare con il tema dell’autodeterminazione non solo culturale ma anche fisica e quindi sessuale (accostandosi al diritto ad esprimere il nesso tra espressione corporea e conquista di una capacità di autodeterminarsi nella sfera della propria intimità), nell’Ungheria dei sovranisti evidentemente suona molto male. Il quotidiano in questione, infatti ha ribadito che «la propagazione dell’omosessualità non può essere un obiettivo nazionale quando la popolazione sta invecchiando e sta diminuendo e il nostro paese è minacciato da un’invasione». Tombola! Il nesso tra una rappresentazione teatrale che parla delle scelte di un ragazzino, l’agitare come uno spettro il tema dell’omosessualità, il contrapporla alla demografia “magiara” e il coniugarla ad un’inesistente «minaccia», dalla quale deriverebbe, attraverso l’indebolimento del «carattere della nazione», la sua futura sostituzione etnica, costituisce una sorta di cortocircuito sospeso tra becero moralismo e disinvolta manipolazione. Non è una novità ma si presenta sempre e comunque con i caratteri della “rivelazione”. In questo caso, di rancido sapore fascistoide. Sulla questione dell’autonomia piena, consapevole e manifesta – poiché liberamente palesata in pubblico – della propria identità sessuale, si gioca da sempre una partita piena di conseguenze politiche. Il controllo della sfera del privato è infatti parte integrante di qualsiasi regime illiberale. Determinare le condotte sessuali, sanzionandone sul piano della morale pubblica quali siano accettabili e quindi lecite (in questi casi, in genere, solo quelle rivolte ad istanze e finalità “procreative”) e quali, invece, censurabili ed eventualmente perseguibili (e qui si sta parlando dei casi del diritto al godimento in quanto atto di pura autorealizzazione e di scambio con il partner, senza fini che non siano quelli della reciprocità del piacere), serve ad allineare gli individui, massificandoli dentro un cliché dove l’autonomia di pensiero viene annichilita insieme a quella del corpo. Perché non esiste nessuna libertà di pensiero se non c’è una compiuta auto-percezione del corpo in quanto fonte di gratificazione responsabile. Quand’anche esso sia impedito per vincoli di abilità differenti (si può essere appagati anche se imprigionati da una malattia: il problema è semmai dettato dagli impedimenti delle convenzioni sociali così come dalla concreta mancanza di opportunità per chi è in uno stato di bisogno che non può affrontare da sé). Non è un caso se i totalitarismi – del passato come del presente – puntino le loro carte proprio sulla distruzione del diritto al piacere, esponendolo al pubblico ludibrio in quanto manifestazione di “immoralità” che, da fatto personale, diventa nelle raffigurazione enfatiche degli organi di regime, una minaccia al «carattere nazionale». Ci sia concesso dire che una parte corposa del mondo islamico ha evidentemente molti punti critici da affrontare al proprio interno, a partire dallo statuto della donna per giungere al disconosciuto diritto alla sessualità, che sia etero, omo o cos’altro ancora. Non è un ritardo culturale: semmai è una strategia di permanente assoggettamento degli individui. Se a questi giganteschi nodi, che di certo non si risolveranno a breve, se ne vanno ad aggiungere altri, a partire dalla vecchia Mitteleuropa, c’è di che dolersi. La «democrazia illiberale» di Orbán, dietro il pugno chiuso (!?) e duro dell’inflessibilità nei confronti dei diritti, a partire da quelli alla differenza, rivela quale sia la sua autentica matrice, ossia ciò che resta delle vecchie, misantropiche e reazionarie «democrazie popolari», le quali se si sono inabissate come regimi politici alla fine degli anni Ottanta hanno lasciato un tenace calco tra la collettività. C’è di che riflettere, soprattutto dinanzi allo sfiancamento dell’Unione Europea e alla sua congenita incapacità di costruire piattaforme condivise sui diritti civili e sociali.
Claudio Vercelli
(24 giugno 2018)