Machshevet Israel – La sfida del Decimo Comandamento
Tempo fa ebbi una conversazione con mio figlio Jonah Ariel, dieci anni, sulle aseret ha-dibrot ovvero i Dieci comandamenti. Giunti all’ultimo, il decimo – lo tachmod, non desidererai… – mio figlio se ne uscì con l’esclamazione: ma questo è impossibile! Non mi ero mai soffermato a pensare che il decimo comandamento fosse il più difficile, tanto meno impossibile. In effetti, proibire un’azione o un oggetto è una cosa e probire il desiderio di un’azione o di un oggetto è altra cosa. Le leggi delle civiltà illuminate non sanzionano i desideri delle persone, li possono solo socialmente scoraggiare; e la stessa halakhà, che pure prevede e regola, a volte, la kavvanà, la ‘direzione’ di un certo agire, non si occupa della sfera dei desideri e delle mere intenzioni. Da qui la domanda: è mai possibile comandare il (non) desiderio? Cosa significa desiderare? Ha forse ragione Jonah Ariel nel dire che, di tutti i comandamenti, questo è il meno eseguibile perché – il retropensiero esperienziale è mio – il desiderio è una struttura antropologica imprescindibile, fa parte della natura e del dna psichico degli esseri umani, non solo dei ragazzini che sognano di avere un altro Lego più complesso o un Nerf più grande.
Lo-tisba‘ ‘ain lir’ot ve-lo-timmale ozen mi-shmoa‘, leggiamo in Qohelet 1,8: “Mai l’occhio è sazio di vedere e mai l’orecchio si riempie dell’udire”. Anche quando le parole si esauriscono o si svuotano di ogni significato, sì che “l’uomo non può più usarle”, più forte delle stesse parole è il desiderio umano senza limiti di vedere e udire, l’anelito dell’occhio e dell’orecchio, la cui insaziabilità, ad un tempo meteriale e spirituale, è il segno e la cifra della vita stessa, come una fame e una sete infinite davvero fisiche e metafisiche, indici di qualcosa di in-finito che le genera, le forgia e le condiziona. Da Qohelet a Levinas, passando attraverso Spinoza e Freud, Ernst Bloch e Philip Roth, il tema del desiderio – o conatus – ha avuto mille declinazioni nel pensiero degli ebrei di ogni tempo e si è personificato, se così posso esprimermi, nella figura del messia, il ‘desiderato più intenso della storia ebraica’ nella misura in cui non è venuto e non verrà, semplicemente perché il ‘venire messianico’ si declina sempre e solo al presente, come Speranza o Desiderio con le maiuscole, come apertura e trascendenza che ripetono a se stesse e al resto del mondo: ‘od lo, non ancora. Tensione verso un al di là, un di più, un altrove.
Se il desiderio è la chiave della nostra struttura metafisica, perché proibirlo? Una possibile risposta la offre Stefano Levi Della Torre là dove commenta: “Eva guardò il frutto, forse anche perché l’unico oggetto proibito, con occhio nuovo e vide che esso era desiderabile perché ‘buono da mangiare, bello da vedere, desiderabile per l’intelligenza’ (cfr. Gn 3,6). [La madre di tutti i viventi] inaugurava l’ambito della sensibilità e con essa quello del desiderio. Ma il desiderio è percezione di un’imperfezione, di una mancanza che chiede soddisfazione. E in quanto percezione di una mancanza, e quindi di un bisogno e di un difetto, il desiderio è contiguo alla vergogna e al pudore: ‘Allora si aprirono i loro occhi e si accorsero di essere nudi. E cucirono delle foglie di fico, e se ne fecero dei cinti’ (Gn 3,7)”.
Non va dimenticato che si tratta dell’ultimo comandamento ossia il quinto della seconda tavola, dove sono scritti i doveri, per così dire, orizzontali che regolano i rapporti con il prossimo, gli altri, la società. Ha dunque senso pensare che questo divieto a volere le cose altrui sia un forte correttivo – un vero precetto preventivo – nei rapporti sociali e politici, come lo è appunto il pudore (che funge da siepe di autodifesa) e la vergogna (che funge da deterrente per azioni socialmente disdicevoli). Nondimeno il desiderio è pungolo all’intelligenza, motore della curiosità, grimaldello per l’istinto che esplora, seduce e conquista. Ma proprio in quanto irrefrenabile ‘per natura’, ‘per legge’ va messo sotto controllo, va regolato. Nel lessico ebraico v’è un altro termine per desiderio: chefetz, che dà il titolo al testo di etica ebraica contro la calunnia e la malalingua scritto dal rabbino polacco Israel Meir Kagan (1838-1933), chiamato appunto Chefetz Chajjim. L’espressione viene da Salmi 34,13: “C’è qualcuno che desidera la vita…? Preservi la lingua dal male… stia lontano dal male e faccia il bene”. Dunque desiderare la vita, e tutto ciò che vita significa, non solo è naturale ma è quello jetzer tov che dobbiamo scegliere e seguire (“scegli la vita!”); ma affinché questa scelta sia quella giusta, secondo la Torà, dobbiamo mettere un freno ai desideri che ledono la vita altrui: i loro affetti ossia i loro legittimi sposi e i loro averi, in altre parole: la loro dignità che da quegli affetti e averi deriva. Nulla lede la dignità di un essere umano quanto l’offesa della reputazione, recata da dicerie malevoli. “Non desidererai” allora quel che non è tuo, al fine di preservare la tua e l’altrui dignità, fondamentale valore etico sia sociale sia politico, che il decimo comandamento – all’apparenza impossibile – presidia.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI