intellettuali…

“Si può siamo liberi come l’aria
Si può
Si può siamo noi che facciam la storia
Si può
Si può io mi vesto come mi pare
Si può sono libero di creare
Si può son padrone del mio destino….
….Si può
Basta uno spunto qualunque
La nostra fantasia non ha confini
…Si può contestare e parlare male….
Si può fare critiche dall’esterno
…Libertà libertà libertà libertà obbligatoria….”

“Si può” , è una famosa canzone di Giorgio Gaber del 1992 nella quale si enfatizza un certo approccio anarchico e vorace del concetto della libertà.
Sono parole molto attuali e indicative di come, anche negli ambienti degli “intellettuali” , sembra ormai possa dirsi tutto e il contrario di tutto ignorando quei paletti e quelle distinzioni che ci aiutano a mettere a fuoco, a selezionare e ad affrontare la vita e i problemi con onestà e responsabilità. In nome di un malinteso pluralismo e di una sedicente libertà di pensiero si legittimano mistificazioni e capovolgimento dei valori.
Quale dovrebbe essere in questo contesto il ruolo dell’intellettuale ebreo? Innanzi tutto rispondere alla propria coscienza, esprimendo giudizi non generici, stimolando la riflessione in ragione della propria cultura e del proprio sapere, cercando di far emergere verità anche “scomode” e in controtendenza, mettendosi, se necessario, contro la maggioranza .
Lo scrittore americano Philip Roth parlava di “egolatria“ come patologia dell’anima tipica dell’intellettuale del proprio tempo. Parlava di un “Io”, quello dell’intellettuale, che si gonfia e lievita. Di un narcisismo sorridente. Quell’Io che oggi si specchia nei like dei social network, quel cipiglio esibito dal sarchiaponismo dei salotti buoni, lì dove non esistono più verità condivise, fatti etici ed evidenze storiche comuni. In quegli spazi virtuali e fisici si articola l’esercizio intellettuale dell’universo deformato, dove tutte le idee si legittimano allo stesso modo, per cui non esistono più verità, ma solo post-verità manipolate e manipolabili.
Anche nel nostro piccolo mondo ebraico italiano, scenario di componenti diverse, sembra che alcuni intellettuali siano sempre più avvitati in un autocompiacimento supponente, piuttosto che interessati a stimolare e ad approfondire questioni sensibili.
La varietà e il confronto di interventi da parte di ebrei diversi per provenienza, cultura, tradizioni, grado di osservanza religiosa, può costituire un grande valore a patto che ci siano le capacità critiche e l’onestà intellettuale per un dibattito rispettoso, non ideologico e autoriferito.
Mi sembra che il valore del “pluralismo” – predicato molte volte a senso unico e proprio da chi con granitiche certezze esclude a priori tutto ciò che è “diverso” da sé -, venga abusato come strumento volto a giustificare comportamenti irresponsabili che delegittimano quei valori sui quali la sopravvivenza della Comunità stessa si fonda. In questo caso la ricchezza delle molteplicità si trasforma in una forza disgregante, capace di aumentare tensioni, sospetti, rancori, volontà di dominio. Quello di alcuni intellettuali ebrei è un atteggiamento provocatorio, che si trincera spesso dietro a un vittimistico e piagnucoloso complesso di emarginazione.
Ci si lancia in solenni appelli e proclami contro la politica dello Stato di Israele , sull’onda della manipolazione mediatica, strumentalizzati a ogni piè sospinto da opinionisti dal più bieco antisemitismo , mettendo in secondo piano gli effetti e le conseguenze distruttive di queste esternazioni, ignorando tra l’altro la sensibilità di altri membri della propria comunità che magari hanno un figlio impegnato nella difesa dello Stato di Israele , che sta sacrificando i migliori anni della sua vita per sostenere la dignità e la sopravvivenza del popolo ebraico tutto.
Alla provocazione fa quasi sempre seguito l’esternazione del timore di essere messi alla gogna da altri ebrei e dalle istituzioni comunitarie. Si invocano alla bisogna interventi di rabbini, di cui, nella vita quotidiana, se ne ignorano sfacciatamente la maggior parte degli insegnamenti.
Si accusano genericamente altri ebrei di essere ignoranti e di disprezzare la cultura (quale?) senza riuscire a cogliere le evoluzioni e i cambiamenti in atto, perfino in quei contesti che fino a ieri erano infossati nell’arretratezza sociale e culturale.
Si interpretano strumentalmente alcuni risultati statistici di una recente ricerca demografica sull’ebraismo italiano per dimostrare quanto le persone più attaccate alla vita comunitaria siano in verità le più incolte e bigotte nell’osservanza. Un pretestuoso sillogismo questo per affermare come gli osservanti siano sempre quasi ignoranti e facinorosi.
Mi sembra che tali posizioni classiste e supponenti di alcuni nostri intellettuali ci imprigionino sempre di più in una logica semplicistica e manichea che vede da un lato le anime buone, gli ebrei secolarizzati e figli dell’Illuminismo , e gli “scugnizzi” (romani!), culturalmente “scaciati”, e “buzzurri”, dall’altro lato. Così facendo non riusciremo mai a formare una Comunità autentica e plurale, né trovare un punto di incontro, una appartenenza che si fondi sul principio dell’Ahavàt Israel.
Sia chiaro: ognuno ha il diritto di essere ciò che crede sulla base di scelte esistenziali consapevoli e meditate. E nessuno deve permettersi di offendere, minacciare altri solo perché non la pensano come lui, e soprattutto nessuno può autoinvestirsi del ruolo di giudice e di poliziotto dell’identità di un altro ebreo.
Fatta questa premessa, mi interrogo sul perché di tanto sussiego intellettuale, di tanto atteggiamento sprezzante verso chi magari non esibisce quarti di nobiltà culturale o ancora verso chi non ha potuto o voluto darsi una preparazione all’altezza. Ho l’impressione che i nostri “intellettuali” siano incapaci di scendere dal proprio Aventino e mescolarsi, condividere con gli altri, con la loro comunità, momenti di gioia e di dolore.
E sul tema dell’essere minoranza, non dimentichiamoci che l’adesione all’ebraismo è sempre passata attraverso i piccoli numeri, una minoranza, e gli osservanti sono sempre stati una minorità nella minoranza.
Resta da capire cosa è l’amore per la cultura per un ebreo oggi.
Non ha l’esclusività intellettuale solo chi è titolare di una cattedra universitaria , forse lo è anche chi cerca di far capire a pochi discepoli di un Bet ha Midrash (altra minoranza invisibile), l’abissale e meravigliosa profondità di un commento di Rashi, un’opera che è anche un inno alla libertà di pensiero e di interpretazione, scritto nel Medioevo, quando tutto intorno le Crociate seminavano morte, distruzione, violenza. A chi oggi rivendica la patente di “intellettuale ebreo”, a chi oggi non riesce neppure a riconoscere una pagina della Torà nella sua struttura di base, a chi celebra banalmente, lo spirito dialettico del Talmud senza sapere neppure decifrarne una sola lettera, dico che forse sarebbe giunto il tempo di scendere dal piedistallo per mettere al servizio di altri ebrei, – più umili e semplici -, competenze, visioni, cultura, capacità di dibattito e di confronto, senza snobismi, senza sicumera. E forse insegnare. Ma anche imparare tante cose.

Rav Roberto Della Rocca, direttore dell’area Formazione e Cultura Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Pagine Ebraiche Luglio 2018