Periscopio – Karl Marx

lucreziIn un lucido articolo pubblicato sul numero di giugno del mensile cartaceo Pagine Ebraiche, poi ripreso sull’edizione online del giornale, Rony Hamaui ripercorre, in occasione del duecentesimo anniversario della nascita di Karl Marx, il controverso rapporto del filosofo di Treviri con la religione e l’identità ebraica, da cui, com’è noto, proveniva la sua famiglia. Opportunamente l’autore ricorda come “molti commentatori, soprattutto antimarxisti e nazisti, hanno cercato di spiegare le radici del marxismo con le origini ebraiche dell’autore, altri con la sua rinuncia alla sua identità ebraica”. Sia il nonno materno, Moses Lowow, che quello paterno, Levi Marx, erano rabbini, e il padre Heschel, avvocato, si convertì al luteranesimo nel 1816, due anni prima della nascita di Karl, solo in ragione di una legge prussiana che impediva agli ebrei di praticare la professione.
Nei suoi scritti, com’è noto, Marx non si occupa mai, specificamente, di ebraismo (coinvolto semplicemente, come “sovrastruttura religiosa”, nella generale e inappellabile condanna di qualsiasi forma di religione, “oppio dei popoli”), se non in due saggi giovanili, la celebre “Judenfrage”, “questione ebraica”, scritta nel 1843, a 25 anni, e, l’anno successivo, “La sacra famiglia”, entrambi composti in risposta e in polemica verso due testi del teologo ebreo Bruno Bauer, che aveva difeso le ragioni della cd. “emancipazione ebraica”. Marx, che aspirava a una società senza classi, nella quale ogni individualismo e ogni particolarismo sarebbero stati destinati a scomparire, non poteva vedere con simpatia una “emancipazione” fondata sulla rivendicazione e la tutela dell’identità ebraica, e soprattutto sulla difesa della religione mosaica, in quanto esse non sarebbero state altro che una riproposizione dell’alienazione religiosa e dell’egoismo individuale. Ma la cosa più importante, secondo me, non è la sostanza delle sue teorie, ma il modo in cui le esprime, ossia la grottesca, deformata e ripugnante rappresentazione che egli dà dell’ebraismo, raffigurato esclusivamente come qualcosa di abietto e repellente, il peggio del peggio del già turpe capitalismo: il culto mondano dell’ebraismo è il traffico, il suo dio è solo il denaro. Un’emancipazione degli ebrei, che avrebbe permesso loro di esprimere ancora più apertamente la loro innata avidità finanziaria e la loro vocazione congenita all’usura e all’accaparramento di soldi, sarebbe stata pertanto una iattura per l’umanità, per cui l’emancipazione ebraica avrebbe dovuto piuttosto avvenire nella forma di una “emancipazione dell’umanità dall’ebraismo”. Nella futura società felice, dell’uomo liberato e riconciliato con se stesso e con la natura, non ci sarebbe stato più nessun posto per ebrei ed ebraismo.
Inutile ricordare quanto queste parole, in quanto parte integrante di quello che sarebbe diventato il nuovo vangelo di una novella religione, siano rapidamente diventate un veleno purissimo, in grado di intossicare milioni e milioni di adepti al nuovo messianismo ateo marxista. Se lo ha detto Marx, non poteva non essere vero, sarebbe stato come dire che Gesù ha sbagliato. E gli antimarxisti, nel contrastare il verbo marxista, non hanno certo scelto di confutare il profeta su questo punto specifico (dove sarebbe stato facile e doveroso farlo). Per tanto tempo, com’è noto, grazie soprattutto a Marx, si è trattato essenzialmente di scegliere unicamente per quale motivo, e da quale fronte, attaccare gli ebrei: da ‘sinistra’, perché sono tutti usurai e capitalisti, come ha detto Marx? O da ‘destra’, perché sono tutti comunisti, come Marx? Ma questa è una storia risaputa, che non vale la pena ricordare.
Hamaui ricorda che “in alcuni tratti la violenza del linguaggio antiebraico di Marx lascia sbigottiti”, ma aggiunge anche che tale lessico “deve essere interpretato alla luce del romanticismo ateo e comunista” che ha caratterizzato la figura del filosofo. Certo, tutto va interpretato e analizzato storicamente, è ovvio, ma c’è un’asserzione di Hamaui che non riusciamo proprio a condividere, laddove egli afferma che, anche se oggi facciamo fatica a comprenderlo, il pensiero del pensatore di Treviri non avrebbe in sé “nulla di antisemita”. È proprio una frase come questa, e non il pensiero di Marx, che si fa fatica a comprendere. È difficile trovare, nella copiosa letteratura mondiale in materia di ebraismo, parole maggiormente grondanti ignoranza, disprezzo, ripugnanza, disgusto. E parole che abbiano fatto altrettanto danno (gli scritti giovanili di Marx sono stati letti e apprezzati certamente molto più del “Mein Kampf”). Ma cosa mai sarebbe allora, se questo non lo è, l’antisemitismo?

Francesco Lucrezi

(4 luglio 2018)