Società – La storia di Sacko e l’Italia che lotta per i diritti

sackoLa sera del 2 giugno, a San Calogero, un piccolo centro vicino a Vibo Valentia, Soumayla Sacko, lavoratore arrivato dal Mali, è stato ucciso a fucilate mentre raccoglieva vecchie lamiere in una fornace in disuso: una sorta di discarica ingombra di tonnellate di rifiuti tossici e pericolosi, e per questa ragione da molti anni chiusa per disposizione dell’autorità giudiziaria. Le lamiere sarebbero servite a costruire “alloggi” nella baraccopoli di San Ferdinando: non più confortevoli di quelli fatti di cartone e legno (le lamiere al sole diventano rapidamente roventi) ma almeno meno pericolosi, considerato che un incendio ne aveva da poco distrutti parecchi, con le immaginabili conseguenze. Sacko proveniva dalla regione Caye del Mali, dove aveva fatto l’agricoltore fino a quando la desertificazione del territorio non aveva reso impossibile ricavare la sussistenza da una terra diventata troppo arida. Era in Italia con un regolare permesso di soggiorno. C’è un aspetto investigativo e penale, in questa vicenda, che è ovviamente di competenza della magistratura per quanto riguarda l’accertamento delle responsabilità dirette. Ma non è tutto qui: nell’accaduto vi sono altresì aspetti sociali, politici e culturali che sono invece competenza urgente di tutti noi. I fatti di San Calogero rappresentano infatti un momento di convergenza di molti e gravi problemi che interessano il nostro Paese: una sorta di condensazione drammatica, tanto di nuove emergenze quanto di criticità di vecchia data. Innanzitutto, ovviamente, la situazione dei lavoratori migranti. A parte infatti argomenti fra l’indecente e il ridicolo su cui non è il caso di soffermarsi (la “pacchia” di cui parlano certi personaggi di punta della politica) e fake news di ogni tipo, le condizioni di vita nei molti insediamenti, “spontanei” e no sparsi per il paese, permangono durissime e stabilmente emergenziali. In questo contesto generale si inserisce in modo specifico il problema dei braccianti stagionali. Il ricorso inevitabile a questa forza lavoro altamente precaria costituisce un’esigenza strutturale dell’agricoltura, nel meridione in particolare come anche in molte aree del Paese, ma per essa si pone ovunque un problema drammatico di tutela dei diritti sindacali minimi. Questa contraddizione ha riaperto negli ultimi una fase di lotta sindacale nelle campagne, di movimenti contadini assai significativi, ancorché non troppo considerati dalle cronache. A partire dalle manifestazioni di Villa Literno nei primi anni ’90, molti altri avvenimenti si sono succeduti, fra l’indifferenza dei più, a denunciare condizioni di lavoro insopportabili. Così la “rivolta” di Rosarno, nella stessa piana di Gioia Tauro (dove nel 2010 interessi mafiosi di controllo della manodopera si sono saldati ad atteggiamenti apertamente razzisti), come lo sciopero dei raccoglitori africani di pomodori e angurie di Nardò nel 2012, fino alle proteste dei braccianti Sikh dell’agro pontino del 2016. È di pochi giorni fa l’arresto di due imprenditori siciliani con l’accusa di aver ridotto in schiavitù braccianti stagionali. Le condizioni critiche del bracciantato stagionale dipendono in grande misura dalle storture di un mercato del lavoro ancora fortemente incentrato sulla meccanismo ricattatorio del “caporalato”. In Italia, due sono le leggi recentemente approvate per contrastare il fenomeno. La prima varata nel 2011, precisamente in relazione con le proteste dei braccianti stagionali di Nardò, e la seconda nel 2016 (legge n. 199) che prevede la rilevante novità di estendere le responsabilità penali non solo al reclutatore – appunto il “caporale” che funge da intermediario in condizioni di assoluta arbitrarietà – ma anche al datore di lavoro che “impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. Ma i risultati non si vedono ancora. Chiunque sia disposto nelle prime ore del mattino a fare un giro per i paesi della piana di Gioia Tauro – ad esempio – potrà vedere, in piazza, i molti lavoratori che aspettano – ovviamente in concorrenza reciproca – l’arrivo del caporale che sceglierà alcuni (solo alcuni) di loro per una giornata di lavoro dura e (molto) sottopagata. Questi movimenti collettivi di protesta dei lavoratori immigrati hanno prodotto un sindacalismo di base, in alcuni casi piuttosto attivo, a volte in connessione con le centrali sindacali di categoria (come ad esempio le manifestazioni dei lavoratori della Piana del Sele del 2016 che hanno avuto il supporto della Flai-CGIL) ma più spesso in forme relativamente autogestite, come a Rosarno dopo i fatti ben noti. Ciò ha condotto spesso alla costituzione di strutture cooperative locali, con funzioni di riequilibrio e contrasto. La vita del sindacalismo agrario meridionale, d’altra parte, non è mai stata facile, sotto la pressione degli interessi mafiosi. La memoria torna doverosamente a fatti lontani. A Placido Rizzotto assassinato a Corleone, a Giuditta Levato, uccisa a Catricalà, a Angelina Mauro assassinata a Melissa, nella campagne di Crotone, e a diversi altri ancora. Ma, in tempi più recenti, anche a Jerry Masslo, rifugiato politico e sindacalista sudafricano ucciso a Villa Literno nel 1989. E appunto anche a Soumayla Sacko che precisamente faceva il sindacalista, in una struttura di base e di solidarietà con suoi compagni di lavoro. E questo configura un elemento ancora, il più inquietante, forse. L’idea del “sindacalista negro” rappresenta una immagine assolutamente intollerabile nell’universo suprematista e razzista, una concentrazione simbolica inaccettabile. Invece di accettare con gratitudine la posizione naturalmente subordinata che gli viene accordata – in altri termini invece di starsene rispettosamente al “suo posto” – il nuovo arrivato – intruso, pericoloso, diverso – sfida, reclama e pretende addirittura “diritti” per sé e per i suoi. Archetipi di questo tipo, naturalmente, non sono necessariamente detti, e ancor meno rivendicati, eppure a volte volteggiano per così dire nell’aria e, magari da lontano, ne respiriamo gli effetti.

Enzo Campelli, Pagine Ebraiche, luglio 2018