Il prezzo della sintonia
È giusto che un ambasciatore cerchi di intrattenere buoni rapporti con il governo locale, di qualunque colore sia, e con il locale ministro degli Interni, a maggior ragione se è anche il vicepremier. È chiaro che non spetta ad un ambasciatore esprimersi sul modo in cui il paese in cui si trova gestisce i propri flussi migratori e i profughi. E se un ministro degli Interni avanza proposte in contrasto con la propria Costituzione non spetta certo ad un ambasciatore straniero il compito di avvertirlo.
Ma se quel ministro è anche il leader di un partito razzista, xenofobo, che strizza l’occhio ai nostalgici del fascismo e del nazismo, e i cui esponenti, comprese persone che occupano cariche politiche a livello locale e nazionale, si lanciano spesso e volentieri in esternazioni nostalgiche e antisemite, l’ambasciatore di Israele non ci trova proprio niente da ridire?
Non c’è bisogno di alzare la voce e di compromettere un’ottima collaborazione. Anche in un contesto di rapporti cordiali si potrebbe approfittare di un incontro per mettere qualche puntino sulle i, per ribadire qualche principio. Nel caso della Polonia, per esempio, a proposito della famigerata legge che rischiava di mettere un bavaglio alla ricerca storica sulla Shoah questo è stato fatto, e i risultati si sono visti perché la legge è stata cambiata. Allo stesso modo l’ambasciatore israeliano Sachs incontrando Salvini, insieme alle grandi dichiarazioni di amicizia (anzi, proprio in virtù di quelle), non avrebbe potuto trovare il modo per esprimere gentilmente, delicatamente, diplomaticamente una garbata preoccupazione per il moltiplicarsi di nostalgie fasciste, razzismo, antisemitismo? O per sottolineare l’importanza della memoria della Shoah?
Altrimenti il prezzo che paghiamo per i buoni rapporti tra Italia e Israele non rischia di essere troppo alto?
Anna Segre, insegnante
(6 luglio 2018)