Sostituto d’intelligenza
Si dice che le cose vadano chiamate con il loro nome ma, spesso, non sappiamo bene quale esso sia per davvero. Così nella bufera mediatica, prima ancora che politica, che in queste ultime settimane ha di nuovo chiamato in causa il tema dei migranti. La questione è anche europea non solo perché il fenomeno delle migrazioni ha una proporzione continentale ma poiché interpella ciò che resta di una comune politica dell’Unione in materia, se di un indirizzo condiviso in tale senso si può ancora parlare. Fermo restando che il sogno “sovranista” di dotarsi di frontiere impermeabili, o difficilmente accessibili, rischia non solo di frantumare quello che resta degli accordi di Schengen sulla libera circolazione dei cittadini nello spazio europeo ma anche di erigere dei veri e propri muri nei confronti dei paesi limitrofi, imponendo dei filtri che potrebbero rivelarsi un incubo per le stesse nazioni continentali. Ciò al netto delle idealizzazioni su improbabili alleanze tra “nazioni sovrane” che, qualora dovessero fare proprie le posizioni più radicali nei riguardi della libertà di movimento, danneggerebbero prima di tutto i propri vicini e poi, in una sorta di gioco del contrappasso, se stesse. Tra le tante fantasie che fluttuano nell’aria come particelle in libertà – una libertà molto confusa, che si fa quasi da subito disordine nei giudizi e, in immediato riflesso, pregiudizio strutturato – è da tempo arrivata anche in Italia, proveniente soprattutto dall’Ungheria di Orbán e dalla Francia di Le Pen ma trovando solido terreno tra alcuni interlocutori nostrani, l’idea che l’intero processo migratorio in atto vada letto come un fenomeno di «sostituzione», guidato da eminenze grigie che lo starebbero utilizzando per mutare gli equilibri sociali e demografici del Continente. Il fantasma del miliardario e filantropo George Soros e della sua Open Society Foundation, prende allora subito corpo. Con il corredo di discorsi sulla funzione delle Organizzazioni non governative, chiamate in causa a cogestire l’emergenza dei profughi e dei rifugiati. Il disegno dell’uno e delle altre, infatti, sarebbe quello di favorire una migrazione di massa. Evidentemente a proprio beneficio. Ricapitolando il tutto e traducendolo in parole più semplici: le migrazioni non avverrebbero spontaneamente (comunque come prodotto di meccanismi economici, sociali e culturali di lungo periodo, a partire dalle diseguaglianze di opportunità e remunerazione nel mercato mondiale del lavoro) ma sarebbero originate da una spinta artificiale; tale spinta costituirebbe il risultato di una volontà che si fa regia, occulta nei suoi sottili fili ma tangibile, poiché misurabile, negli effetti collettivi che comporta; tali effetti consisterebbero perlopiù nella crisi economica e di ruolo sociale che ha investito i ceti medi europei, insieme alla crescente ingovernabilità del «territorio»; l’obiettivo dell’intero processo consisterebbe nell’«invadere», nel meticciare e, infine, nel sostituire le comunità autoctone con gruppi provenienti dall’esterno i quali, insediandosi stabilmente, disarticolerebbero le identità secolari per contaminarle e ibridarle, fino a disintegrarle. Detto questo, va aggiunto che il nocciolo della cosiddetta «teoria della sostituzione» non sta tanto nell’identificazione che essa va facendo della presunta sostituzione di popoli in atto ma nella denuncia del suo carattere di complotto, manifestazione di una volontà nascosta di alcuni soggetti potenti che in tale modo interebbero condizionare la vita di intere comunità nazionali e, in immediato riflesso, di quella internazionale. La teoria del Grand Remplacement (ossia la «grande sostituzione») non è peraltro del tutto inedita. Da almeno una decina di anni, infatti, circola abbondantemente in Europa. A disegnarne i contorni definitivi nel 2010 è stato lo scrittore francese Renaud Camus, già vicino al Partito socialista negli anni Settanta e Ottanta ma eclettico esponente della cultura d’oltralpe, accusato pubblicamente di antisemitismo e poi trasformatosi in pensatore prossimo alla destra identitaria francese. Va detto che nell’uno come nell’altro caso Camus ha sempre respinto ciò che ha definito come mere etichettature diffamanti. In ciò ha trovato alcuni alleati tra gli intellettuali del suo paese. Il punto, tuttavia, non è il suo spessore culturale o politico quanto la pervasività a livello di pubblica opinione delle sue teorizzazioni. In breve, Camus sostiene che in Francia, così come in Europa, gli elementi «di ceppo» autoctono siano prossimi ad essere «sostituiti etnicamente» dalle popolazioni del Nord Africa. L’immigrazione, per l’appunto, sarebbe parte di questo processo eterodiretto, evidentemente guidato da «poteri forti» e volontà insindacabili, all’interno di un disegno preciso. Benché scarsamente o per nulla credibile alla prova dei fatti (poiché non comprovabile in alcun modo), nell’ultimo decennio una tale teorizzazione è tuttavia divenuta uno degli assi portanti dell’ideologia delle destre non liberali europee. Il teorema della «sostituzione», infatti, porta con sé, dietro «una vaga verniciatura sociale o culturale, il proprio portato di fondo, quello di definire i contorni di una minaccia esistenziale, identitaria, più o meno apertamente “razziale”» (così Guido Caldiron). La miscela è quella tipica di ogni costrutto razzista che ambisca a divenire politica di Stato: l’identità è una sola (quella “europea”); essa esiste – o può essere identificata – tanto più dal momento in cui è minacciata dalla pressione “straniera” (cioè definendosi, nei suoi caratteri, esclusivamente in contrapposizione rispetto a ciò che la starebbe mettendo a serio rischio di sopravvivenza); a tale prospettiva bisogna porre un freno adottando politiche non di regolazione dei flussi migratori ma di “decontaminazione”, ossia separando i gruppi etnici ed eventualmente provvedendo ad espellere quelli allogeni, che siano arrivati recentemente o che costituiscano minoranze non in linea con l’identità della maggioranza; da ultimo, lo Stato esiste non perché concorra a risolvere la conflittualità sociale attraverso gli strumenti dell’integrazione ma poiché svolge una funzione eminentemente repressiva, usando nella sua azione quotidiana, come indici di riferimento, i rimandi ai profili e alle appartenenze etniche (ognuno deve stare con quelli “come lui”; pertanto, il ruolo preminente delle amministrazioni pubbliche deve essere quello di escludere i “diversi”, tali perché non integrabili). La globalizzazione è quindi letta come il prodotto dell’ideologia «mondialista», quel cosmopolitismo che vorrebbe cancellare le legittime differenze, divellere le radici, mischiare individui e comunità diverse. La cosiddetta «sinistra radical chic», la «gauche caviar», se non addirittura il fronte dei «buonisti» sono espressioni idiomatiche che, nel loro utilizzo parossistico (e parodistico), nella ricorsività all’interno del linguaggio di senso comune, segnalano il fatto che per le forze ad ispirazione etnico-nazionalista il vero nemico dei «popoli» sarebbe un’élite composta da individui che professano una visione progressista nel mentre, indifferenti agli effetti laceranti che le migrazioni procurano tra la collettività, si curano esclusivamente dei propri interessi di gruppo ristretto. Il neonazionalismo, l’etnicismo ma anche il sovranismo sempre più spesso dichiarano esaurito il conflitto sociale ed economico, affermando invece che il vero confronto pubblico sarebbe quello che si consuma tra comunità nazionali (e «culture») diverse. La visione che offrono della società, non a caso, è di matura rigorosamente corporativa: una comunità di «produttori», non distinti dalla diversa collocazione occupata nella gerarchia delle risorse e dei ruoli ma in base all’appartenenza etnica. Negli ambienti della Nuova destra, il movimento culturale che dalla Francia della fine degli anni Sessanta in poi ha avuto un discreto sviluppo anche in altre parti dell’Europa, questa lettura dei processi collettivi si è tradotta nella visione differenzialista dell’evoluzione delle società, per la quale il presupposto degli equilibri collettivi riposerebbe nel mantenere separate le comunità nazionali. Il differenzialismo, nel passato, era il tradizionale corredo delle politiche colonialiste, giustificando il trattamento vessatorio imposto ai colonizzati in quanto portatori di una cultura inferiore o subalterna. In Italia i vessilliferi di queste posizioni sono stati a lungo, nella quasi esclusività dei casi, gli esponenti della destra radicale. In anni più recenti soprattutto CasaPound, Forza Nuova, Lealtà Azione hanno sposato tali tesi, trovando tuttavia in alcuni partiti a base parlamentare interlocutori sempre più spesso sensibili. Il “sostituzionismo” ha infine rotto gli argini ai quali era tradizionalmente consegnato, iniziando a raccogliere l’interesse di personaggi ed esponenti anche di alcuni segmenti minoritari della sinistra radicale. Questi ultimi, infatti, leggono in ciò una plausibile interpretazione dell’«imperialismo» del nuovo secolo. Parallelamente a questa suggestione, ha preso vigore anche un’altra teoria cospirazionista, quella che identifica nel fantomatico «piano Kalergi» l’intenzione di arrivare ad un «genocidio programmato dei popoli europei». L’immigrazione di massa servirebbe per «distruggere completamente il volto del Vecchio continente». L’obiettivo finale sarebbe l’incrocio dei «popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’élite al potere». Il satanico ideatore di questo sterminio studiato a tavolino sarebbe il conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, tra i primi sostenitori, negli anni Venti del secolo scorso, della necessità di un’Europa unita. Nato nel 1894 e morto nel 1972, di origine austro-giapponese, di estrazione aristocratica e di appartenenza massonica, fu l’estensore del manifesto «Pan-Europa» e fondatore dell’associazione Unione Paneuropea. A lungo figura marginale del dibattito pubblico, tre decenni dopo la sua morte è stato recuperato dalla libellistica della destra radicale, che ne ha debitamente stravolto il pensiero e le formulazioni. Gerd Honsik, un esponente della galassia neonazista austriaca, nel suo libro «Addio, Europa. Il piano Kalegi, un razzismo legale» (pubblicato nel 2005 in Spagna, dove l’autore si trovava in quanto latitante), ha dato corpo a queste formulazioni, che in anni a noi più prossimi hanno trovato aderenti anche in una parte degli opinion maker e, soprattutto, nel pubblico del web. Va ribadito che una tale lettura dei processi sociali è dichiaratamente patologica, comunque la si voglia interpretare e giudicare. Ossia, si basa non solo su presupposti infondati, ancorché non comprovabili, ma soprattutto su un’interpretazione paranoica delle dinamiche in atto. Tale poiché riconduce il mutamento sociale al prodotto di una deliberata manipolazione clandestina Il fantasma dell’invasione è peraltro un’incontrovertibile perversione di matrice antisemitica. Su questo aspetto, tuttavia, si avrà ancora modo di tornare a riflettere.
(1/continua)
Claudio Vercelli
(8 luglio 2018)