Machshevet Israel – Elogio del ‘quasi’, del ‘forse’, del ‘come se’

massimo giulianiDurante un evento del Festival internazionale delle letterature, da poco chiusosi a Roma, davanti a circa settecento attentissimi ascoltatori lo scrittore americano André Aciman ha fatto l’elogio dell’avverbio ‘quasi’: almost in inglese, kim‘at o keilu in ebraico. Sefardita di origini turche nato ad Alessandria d’Egitto (come se questi pochi dati non fossero già di per sé un quasi-destino), ben tradotto in italiano ma divenuto famoso per il libro “Chiamami con il tuo nome” da cui il noto film di Guadagnino, Aciman ha esaltato le virtù letterarie e filosofiche – ad esempio nell’amato Proust – di quest’avverbio, che a suo giudizio si sostanzia di “gradazioni, sfumature, allusioni e ombre… come una rivelazione a venire, ma non pienamente promessa; il ‘quasi’ fluidifica le certezze” ha detto – in inglese suonava più forte: mollifies certainty – e “introduce una nota di scherzo: non è un ‘sì’ ma neppure in ‘no’, è quasi un ‘forse’. Il ‘quasi’ ritira la conoscenza ultima delle cose e in tutto inietta una natura provvisoria… è la cattiva coscienza che vuol farsi passare per buona mischiando le carte e al contempo mostrando il suoi trucchi”. Non sono rari i pensatori che hanno additato tale avverbio come chiave di un approccio tipicamente ebraico al mondo. Vladimir Jankélévitch, ad esempio, l’ha addirittura messo nel titolo della sua opera principale: le presque-rien, il ‘quasi nulla’, che tuttavia spezza il silenzio del nulla e diventa pertugio per qualcosa, aprendo la strada all’essere. Sempre in ambito francese, André Neher lo ha rivisitato attraverso il ‘forse’, ulaj, le cui radici, a suo giudizio, affondano nella teologia dialettica del Maharal di Praga; mentre Emmanuel Levinas gli preferiva l’avverbio ‘altrimenti’: altrimenti che essere. Paolo De Benedetti, da noi, lo ha rilanciato nella formula classica del ki-vjakol, ‘se così di più dire’, molto vicino al keilu, il ‘come se’, che può introdurre un mashal, un esempio o una parabola.
Questa serie di avverbi sono tutte modalità con le quali il pensiero e la parola avvertono chi ascolta o legge: non prendetemi alla lettera, dubitate un poco del linguaggio, non crediate di aver trovato l’unica definizione giusta, la verità definitiva, la formula perfetta. La vera conoscenza procede per approssimazioni, gradazioni e sfumature, per detour e svolte che intendono smontare quanto appena costruito, come un set teatrale che cambia nel buio ma a scena aperta. Ebraicamente potremmo dire che è un dispositivo anti-idolatrico, perché blocca la presunzione di possedere il vero e/o il bene, e costringe ad alzare lo sguardo, sempre oltre, sempre altrove: ancora termini cari a Jankélévitch. E tuttavia, queste formule dell’incertezza e del dubbio non sono mai, in questi autori e nella tradizione ebraica, celebrati per se stessi, come un’altra forma idolatrica, retorica del contro-vero. È quasi fastidiosa la ripetizione banalizzante per cui nel giudaismo si fanno domande e non si cercano risposte, come se le domande – se autentiche – non cercassero vere risposte, come se non mirassero a raggiungere la verità.
Lo ha spiegato da par suo Claudio Magris commentando l’ironia di Isaac Bashevis Singer, quando dice che se si comincia a dubitare della propria moglie si finisce per dubitare della Torà. “C’è dubbio e dubbio – afferma Magris – e Singer non ha nulla a che vedere con la presuntuosa pretesa di conoscere e possedere la verità, pretesa madre di tanti dogmatismi e anche di intolleranze e di persecuzioni nei riguardi di chi non la condivide o ne dubita. Ma Singer non ha nulla a che spartire neppure con la retorica del dubbio, ora più che mai imperante nelle forme più banali”. Per vincere una banalità non dobbiamo cadere nella banalità opposta. Il contrario del dubbio è appunto l’arroganza del sapere, non la verità. La quale, dice ancora Magris, si può intravvedere soltanto di riflesso, come l’anello di cui parla la parabola narrata da Boccaccio e rinarrata da Lessing (pensando a Moses Mendelssohn), la si può cogliere soltanto nell’umanità di chi quell’anello porta al dito: “l’impossibilità di conoscere la verità non ne nega l’esistenza” ma ricorda che “essa appartiene solo a Dio, mentre il compito dell’uomo è quello di cercarla”. È un pensiero che attraversa anche la Stella della redenzione di Franz Rosenzweig.
Nelle fonti dei maestri di Israele abbondano le precauzioni concettuali e halakhiche: forse, se così si può dire, chi sa?, altra interpretazione, e persino il tejqu, sospeso, in attesa del profeta Elia. Io amo molto anche la congiunzione avversativa af ‘al pi ken, tuttavia/ciononostante/di contro: essa introduce l’opinione contraria, la divergenza della machloqet ovvero la disputa: senza machloqet la verità resta inaccessibile. In più, il pensiero pensa solo se viene contraddetto e sfidato a mostrare la propria validità. Senza un po’ di dubbio, senza il contraddittorio e qualche stratagemma, la verità non si rivela.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI