Mostre – Vita, progetti e azioni di un intellettuale civile
In occasione della mostra al MAXXI di Roma per il centenario di Bruno Zevi (1918-2000), vorrei sottolineare come l’appellativo di “intellettuale civile” da me proposto in uno degli incontri del Museo delle arti sia adatto a rappresentare nell’insieme la complessa figura dell’architetto e urbanista, dello storico e critico, e dell’organizzatore di cultura e militante politico. Zevi scriveva di se stesso nel 1993 (Zevi su Zevi, profezia di un’architettura): «Una volta iscrittomi al Partito d’azione, non ho più cambiato: anche oggi lo impersono, lo rappresento». La passione dell’architetto per quel piccolo e glorioso partito della Resistenza di cui era stato membro per pochi anni tra Resistenza e primo dopoguerra, in realtà esprimeva la metafora di come Zevi aveva voluto vivere la sua vita mantenendo ben fermo l’intreccio tra la professione architettonica e urbanistica, l’insegnamento come missione, l’impegno culturale libero da dogmi, e la tensione perla giustizia e la libertà, sempre sorretto dalla coscienza civile che aveva guidato la sua avventura umana. Emigrato negli Stati Uniti per le leggi razziali (dove si laurea ad Harvard con Walter Gropius e si immerge nello spirito di Frank Loyd Wright), entra nel gruppo di punta della associazione antifascista «Mazzini Society» di Gaetano Salvemini e Randolfo Pacciardi, pronto ad arruolarsi, se fosse stata costituita, nella legione italiana per combattere i nazifascisti. L’adesione al socialismo liberale dei fratelli Rosselli non deriva a Zevi soltanto dalla comune matrice ebraica e dal fascino di «giustizia e libertà», ma specialmente dall’identificazione con un modello umano che poneva al centro della vita la necessità e l’urgenza dell’azione per concretare progetti e perseguire ideali al di fuori di inutili astrazioni. Rientrato in patria, si immerge nella politica nuova dell’azionismo e nel dibattito culturale sugli obiettivi civili dell’architettura, pur restando fedele all’insegnamento di Benedetto Croce (che commemora all’università di Venezia alla scomparsa nel 1952) sull’autonomia dell’arte dalla politica, prima dal fascismo e poi dal comunismo. Dirige nel 1945-46 per conto dell’United States Information Service (USIS) i primi bollettini di aggiornamento tecnico e scientifico da cui prese le mosse il Manuale dell’Architetto su cui si sono formati migliaia di studenti, quindi fonda l’«Associazione per l’architettura organica» (APAO) e la rivista Metron con la parola d’ordine: «L’architettura organica è un’attività sociale, tecnica e artistica diretta a creare l’ambiente per una nuova civiltà democratica». In seguito, per mezzo secolo, Zevi rimane un solerte organizzatore di cultura che anima innumerevoli imprese: la rivista Architettura-cronache e storia, i taccuini dell’Espresso e, oltre la cattedra accademica che abbandona nel 1979 per il deterioramento dell’università, l’Istituto di urbanistica per concretare l’idea di advocacy planning, l’Istituto di architettura di respiro internazionale, e una miriade di convegni, congressi, seminari per dare anima a categorie professionali disgregate e individualistiche. Il fervore che accompagna tutte le sue iniziative è nutrito dalla particolare dote di essere, al tempo stesso, immerso profondamente nel suo mestiere di architetto, e di agire con una coscienza civile agli antipodi dello specialismo e del settarismo. Dopo la fine del Partito d’Azione, Zevi non aderì ad altri partiti, e per un trentennio si sentì politicamente orfano anche se si mostrò sempre disponibile a contribuire a ogni iniziativa che rendesse democratico e liberale il socialismo italiano di cui condivideva la tendenza riformatrice. Perciò, alla fine degli anni settanta, fu inevitabile l’incontro con i radicali: quando nel 1987 gli fu proposto di candidarsi al Parlamento per il Partito radicale di cui era divenuto presidente, rispose: «Accetto perché da azionista vedo in voi gli eredi dei Rosselli». La sua presenza parlamentare (1987-1992) nel gruppo di minoranza fu esemplare per l’intelligenza che non fece mai pesare il prestigio e la fama di cui godeva.
Massimo Teodori, Il Sole 24 Ore Domenica, 8 luglio 2018