…1938

Metà di luglio del 1938. Domani, ottant’anni fa, il Giornale d’Italia pubblicherà il manifesto degli scienziati razzisti, peraltro in gran parte redatto dallo stesso Benito Mussolini. Verrà detto agli italiani che le razze umane sarebbero “una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi”. Verrà scritto che l’Italia è popolata a maggioranza dalla razza ariana ormai da millenni. Verrà altresì svelato che “dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione”. In un’ottica pedagogica sarà quindi “additato agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra–europee, questo vuol dire elevare l’italiano a un ideale di superiore coscienza di sé stesso e di maggiore responsabilità”. All’articolo 8 si stabilirà chiaramente l’estraneità di africani e di semiti: “Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili”. Quindi, all’articolo 9, l’affondo che indicava il vero oggetto del manifesto: “Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani”. Infine con l’articolo 10 si prospettava la pericolosità dell’ibridazione: “Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra–europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani”.
Sono in preparazione per la seconda parte dell’estate e poi nell’autunno 2018 una serie di iniziative per ragionare sulla rapida deriva che dalla pubblicazione del manifesto condusse all’espulsione degli ebrei dalle scuole e università e poi alla promulgazione dei provvedimenti in difesa della razza firmati da Vittorio Emanuele III e controfirmati dal duce. Si tratta di un importante fenomeno politico-culturale. Si prende spunto da un evento catastrofico per la storia del nostro paese per ragionare sul concetto di cittadinanza e sulla precarietà della giurisprudenza che la regola e la determina. Certo, nel 1938 si viveva in un regime più o meno totalitario (il dibattito storiografico su questo punto è ancora ampiamente aperto). Decideva il capo, e la nazione organica fondata su una lunga stagione di consenso lo seguiva senza apparenti segni di contestazione (furono irrilevanti le espressioni di dissenso in Italia verso la politica razzista). Oggi viviamo in democrazia e le dinamiche sono certamente differenti, le garanzie costituzionali sono salde, il pericolo di derive autoritarie sembra sotto controllo. Sembra, appunto. La vigilanza è d’obbligo, peraltro come per ogni dinamica politica. Io penso che sia questo il nodo che dovrà caratterizzare la riflessione dei prossimi mesi. I film (numerosi e originali), le mostre e i convegni che si realizzeranno in Italia dovrebbero evitare il rischio di stabilire antistorici automatismi fra politica razzista e Shoah. Il percorso che ha condotto dalla persecuzione dei diritti a quella delle vite (per usare una terminologia fortunata introdotta da Michele Sarfatti) è stato tortuoso e complesso. In ogni momento di quella brutta storia si sarebbe potuti intervenire per bloccare la macchina. Ragionare sulla complessità della società moderna, sui suoi automatismi e sulle sue pericolose derive non dovrebbe indurre nella tentazione di stabilire delle dinamiche di causalità che sono ipotizzabili solo ex post, ma che non hanno rispondenza automatica con la realtà storica. Se fossi nei curatori delle diverse produzioni culturali in gestazione lascerei la Shoah sullo sfondo e mi concentrerei sugli avvenimenti del 1938, che furono la cruciale radice storica di una dinamica di esclusione pericolosa e incredibilmente attuale.

Gadi Luzzatto Voghera, direttore Fondazione CDEC

(13 luglio 2018)