Periscopio – Il calcio, un mondo a sé
Non sono un grande appassionato di calcio, in vita mia sarò andato allo stadio non più di un paio di volte, raramente vedo le partite in TV e non sono particolarmente ‘tifoso’ di nessuna squadra. Sostengo il Lecce – la squadra della città dei miei genitori, che spero vivamente possa presto tornare nella massima divisione – e anche, senza esagerazione, il Napoli, il team della città dove vivo. In una ingenua e infantile difesa dei più deboli, sto in genere dalla parte dei più piccoli, e nell’ultimo campionato sono diventato grande sostenitore del coraggioso e sfortunato Benevento. Ma – all’interno della più generale condanna per tutte le esagerazioni ed esasperazioni del tifo calcistico – non ho mai condiviso il livore nutrito verso le ‘grandi’, quelle che vincono sempre (oggi la Juve, ieri il Milan, l’altro ieri l’Inter), oggetto di un’avversione che mi sa tanto di invidia e frustrazione. Nelle competizioni internazionali, sono sempre contento – con moderazione – se vince una squadra italiana, così come contento se l’Italia vince. Se perde, sopravvivo tranquillamente. Ma, nonostante questa mia scarsa passione, confesso che, negli ultimi anni, mi sono avvicinato di più al calcio, tanto che ho seguito abbastanza l’ultimo mondiale. Alla finale di domenica, ovviamente, ho tifato per la piccola Croazia (e, ovviamente, come quasi sempre mi accade, ho perso).
C’è forse un motivo per questo mio tardivo e senile interessamento per il calcio? Sì, credo che ci sia, e che sia questo.
Al di là dei deprecabili fenomeni di violenza, intolleranza, razzismo e antisemitismo che funestano questo mondo – che sono oggetto della bella intervista col grandissimo campione, di sport e di vita, Marco Tardelli, nel mensile cartaceo di luglio di Pagine Ebraiche, e contro i quali, certamente, non si lotta con adeguato vigore, per mancanza di volontà o di capacità, o di entrambe -, credo infatti che questo bel gioco rappresenti forse l’unico linguaggio universale, che permette agli uomini di tutto il mondo di sentirsi e di apparire uguali, e di confrontarsi, dividersi, contrapporsi in modo generalmente pacifico, riconoscendo gli uni agli altri il diritto di esserci, e di manifestarsi per quello che si è. Tutti guardano le stesse partite, tutti i vincitori e tutti gli sconfitti esultano e si affliggono nello stesso modo, tutte le piazze del mondo si riempiono, in caso di vittoria, di folle festanti, tutti – perfino io, che non ne capisco nulla – possono parlare delle partite facendo finta di essere grandi esperti. E, anche tra i comprensibili sberleffi per gli avversari, tutti riconoscono agli altri il diritto di volere vincere, di sostenere i propri colori. Magari si gode nel vedere i rivali in lacrime, ma comunque si accetta che ci siano, anzi, si avverte la necessità che giochino anche loro, altrimenti il gioco non ci sarebbe.
Ma, al di là di queste banali osservazioni, c’è anche un’altra considerazione. Credo che il calcio piaccia, e non solo a me, perché dà l’illusione che sia possibile che i famosi “valori dello sport” (uguaglianza, lealtà, rispetto ecc.) possano, un giorno, estendersi anche al di là dei prati degli stadi, ed esercitare una benefica contaminazione sui mondi della società e della politica, così pesantemente inquinati da sentimenti di egoismo, grettezza, sopraffazione, disprezzo. Nel vedere i cittadini di tutte le nazioni e i loro capi di stato e di governo guardare, tutti insieme, la stessa palla che rotola sul campo, ci si illude, ingenuamente, che anche su altri terreni possano tutti sentirsi, un domani, diversi ma uguali, avversari ma non nemici.
Ma, purtroppo, si tratta soltanto, appunto, di un’ingenua illusione. La verità è che il calcio è un mondo a sé, i suoi cosiddetti ‘valori’ sono soltanto funzionali alla sua esistenza, e il suo “fair play”, quando c’è, resta chiuso su quello specifico terreno, non si espande al di fuori di esso. Le migliori democrazie e le peggiori dittature hanno entrambe interesse, per motivi diversi, a promuoverlo, ma non per questo si avvicinano o si trasformano. E, soprattutto, questo mondo assiste imperturbabile alle più turpi e flagranti violazioni della comune morale, senza mostrarsene minimamente turbato. Quante reazioni, quante sanzioni disciplinari ci sono state di fronte alle minacce di morte pronunciate, dai dirigenti di una certa Federazione, contro i calciatori che avessero osato andare a giocare in un certo Paese? Quante proteste, quanta indignazione si è sollevata di fronte al fatto che la partita, nella nazione ‘infetta’, è stata annullata? Il dio del calcio è del tutto indifferente ai concetti di giustizia e virtù, dei quali non gli importa assolutamente nulla. Il suo unico motto è “the show must go on”, l’odio e il razzismo gli scivolano addosso, come acqua sul marmo.
Francesco Lucrezi, storico