…Austria

“Andava molto in giro – nessuno badava a lui – e si sceglieva un po’ ovunque gli amici e i nemici della sua fanciullezza, e gli era indifferente se la sua palla sfondava il vetro di una finestra cèca, tedesca, ebrea o della nobiltà austriaca. «Io sono hinternazionale» soleva dire. Hinter, cioè dietro, le nazioni – non sopra né sotto – si poteva vivere vagabondando per vicoli e cortili”. Così l’ebreo praghese Johannes Urzidil nel Trittico di Praga, in cui descrive la propria infanzia nella città sulla Moldava, una città boema, tedesca, ebraica, slovacca, slava, occidentale e orientale, allora parte dell’Impero multinazionale per eccellenza, o forse hinternazionale, quello austro-ungarico. I cittadini della monarchia degli Asburgo, scriveva Robert Musil qualche anno prima di Urzidil, sono definibili solo per sottrazione: un austriaco è un austro-ungherese meno l’ungherese. L’identità, insomma, è una questione residuale. E allora, potremmo aggiungere, l’Austria – non la piccola repubblica alpina nata dopo la Grande guerra, che è tutt’altra cosa, ma la vecchia Austria imperialregia: l’Austria era tutto il mondo, diceva ancora Musil – è stata a lungo una nazione senza qualità, almeno fino a quando non ha scoperto di essere un insieme di qualità senza nazione. Allora, priva di un centro unificatore, non ha retto l’urto della storia, quello delle mitragliatrici di Verdun, dei partiti di massa e della modernità pronta a irrompere, di lì a poco, nella vita quotidiana delle persone. Nell’Uomo senza qualità il comitato dell’Azione Parallela va alla ricerca dell’idea a fondamento della quale si poggia l’Austria, il suo principio primo e ultimo, e ovviamente non lo trova. E come potrebbe? “L’impero”, ha notato Claudio Magris, “mette a nudo il vuoto di tutta la realtà, che risulta campata in aria”. L’Austria di Urzidil e di Musil è la civiltà europea, la civiltà hinternazionale assediata dai nazionalismi e devastata, pochi anni più tardi, dai fascismi. Proprio qui, negli interstizi dietro le nazioni, si nasconde forse una lezione che ancora oggi – soprattutto oggi – possiamo fare nostra.

Giorgio Berruto

(19 luglio 2018)