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La Torah racconta che dopo che per quarant’anni Moshè ha ripetuto la frase sibillina “Ci vogliono undici giorni dal monte del Sinay, per la via di Se’ìr, fino a Qadèsh Barnéa’”, finalmente, poco prima di morire, si è deciso a spiegarla, e spiegare anche altri aspetti della Torah. Rashì aggiunge che Moshè l’ha spiegata “in settanta lingue”. Perché era necessario spiegarla in più lingue, se erano tutti ebrei, tutti forniti della stessa cultura, tutti usciti dallo stesso Egitto?
Il Ketàv Sofèr osserva che esistono diverse persone che pensano che la Torah sia stata data solo per essere messa in pratica nel deserto, o al massimo in Terra d’Israele, ma al di fuori bisogna essere “cittadini del mondo”, o “romani a Roma”: adeguarsi al luogo dove si vive, senza distinguersi dalla collettività non ebraica per osservare la Torah.
Perciò, prima che entrassero in Israele, Moshè ha spiegato la Torah in settanta lingue, per far capire che essa dev’essere osservata e mantenuta ovunque, perché è stata data per tutti i tempi e per tutti i luoghi, senza doversi adattare o modificare.

Elia Richetti, rabbino