JCiak – Caschi bianchi
Il finale è triste. Mentre al sud della Siria l’offensiva del regime si faceva intollerabile, Israele portava in salvo in Giordania un centinaio di Caschi bianchi siriani e le loro famiglie: 422 persone. È stato un gesto umanitario eccezionale, come ha detto un portavoce dell’esercito israeliano. Vedere in rotta il fragile esercito dei volontari getta però una luce ancora più angosciosa su quella guerra, ricordandoci – se mai ce ne fosse bisogno – che i riflettori dell’opinione pubblica anche su quel fronte contano poco o nulla.
I Caschi Bianchi, che dall’inizio della guerra soccorrono le vittime dei bombardamenti delle forze pro-Assad, erano entrati ufficialmente nell’immaginario collettivo due anni fa. Candidati al Nobel per la Pace, avevano conquistato l’Oscar grazie al documentario inglese White Helmets di Orlando von Einsiedel. E mentre grazie a George Clooney quel lavoro si apprestava a diventare un film, erano tornati sul grande schermo in un altro documentario, Last Men in Aleppo, diretto dal siriano Feras Fayyad e candidato all’Oscar 2018.
White Helmets (41’) ci scaraventa nella frenesia delle ricerche all’indomani di un bombardamento seguendo un gruppo di volontari. Mentre il mondo attorno esplode, le loro ragioni toccano il cuore. “È meglio salvare un’anima che prenderne una”, dice un ex combattente. “Per me sono tutti famiglia”, dice un altro parlando delle persone che porta in salvo.
Anche Last Men in Aleppo, ambientato nell’antica città siriana ormai ridotta in briciole, segue un gruppo di volontari ma lo fa con un respiro più disteso, quasi due ore. Vediamo gli uomini frugare tra le macerie e la polvere e piangere di gioia quando estraggono un neonato ancora in vita. Impariamo a conoscere Khaled, padre di un bambina. In una scena straziante la porta dal farmacista che, dopo averle guardato le mani, spiega che l’unica malattia della piccola è non avere abbastanza da mangiare.
Incontriamo Mahmoud e suo fratello Ahmed mentre lottano contro un incendio. E ascoltiamo Mahmoud che, dopo aver affrontato orrori di ogni tipo, resta sconvolto dalla crudezza delle domande di alcuni bambini che ha estratto dalle macerie. “Avevo la testa incastrata fra i detriti?” gli domanda un ragazzino: per l’uomo è troppo.
Il film aveva finito per fare notizia anche perché – a causa del Travel Ban che blocca l’accesso negli Stati Uniti da alcuni paesi musulmani – il fondatore dei Caschi bianchi Mahmoud Al-Hattar e il produttore Kareem Abeed non avevano potuto presentarsi alla cerimonia degli Oscar.
Il regista aveva denunciato pubblicamente il bando, difendendo la libertà degli artisti di raccontare storie oltre i confini e ricordando l’immenso valore dell’impegno portato avanti dai volontari in Siria. “Gli sforzi dei Caschi bianchi – aveva ricordato – non possono essere una soluzione alla crisi. La nostra speranza è che il film sia una motivazione per fermare la tragedia, iniziare trattative di pace e aiutare i civili in quelle zone disastrate”.
Purtroppo non è andata così. Si è finito per salvare i salvatori, che ora saranno trasferiti in Canada, Gran Bretagna, e Germania. Quattrocento vite sono al sicuro, per il resto c’è da temere il peggio. Un finale da commedia, per una tragedia che toglie il fiato.
Daniela Gross
(26 luglio 2018)