Il suo segno e le tracce di ebraismo

Non affannatevi a cercare nelle pagine di Vittorio Giardino riferimenti a un ebraismo di maniera, al giudaismo “eclatante” tra Shoah ed Esodo fatto di pigiami a righe, barbe lunghe e kippah, non ne troverete. Eppure l’ingegnere bolognese del fumetto è, in compagnia di Hugo Pratt, l’unico italiano presente nella pluripremiata e multivisitata mostra De Superman au Chat du Rabbin che dal 2008 viene esibita nelle capitali d’Europa, partendo da Parigi per passare a Berlino, ad Amsterdan a Stoccolma. La mostra mette in scena il rapporto strettissimo che c’è tra ebraismo e fumetto, un legame che coinvolge decine di autori tra i più celebri, partendo dalle comic strip americane di fine Ottocento per arrivare ai graphic novel del XXI secolo, passando per i supereroi della Golden Age e i fumetti Underground degli anni Sessanta, valutandone l’opera all’interno del più vasto universo del fumetto senza farne un sottogenere, ma sottolineando proprio l’osmosi continua tra un mondo che si auto-identifica a prescindere dall’appartenenza reale a un contesto religioso. Non affannatevi neanche a cercare chissà quali segni distintivi di un ebraismo sbandierato nelle tavole di Vittorio Giardino, anche di questi non ne troverete. Gli unici segni riconoscibili sono quelli che tracciano alcune menoroth, i candelabri a sette bracci, che soggiornano nelle abitazioni dei due principali personaggi del nostro autore. (…) Il rapporto visivo con l’ebraicità è appena più riscontrabile nelle pagine merge_from_ofoct (2)di Jonas Fink. Qui le menoroth sono tre e non lasciano dubbi sull’appartenenza della famiglia a una determinata cultura né a un ipotetico ondeggiarne tra dentro e fuori. I Fink sono ebrei. Se sono andati in sinagoga, se Jonas ha fatto il suo Bar Mitzvah (probabilmente no, perché all’inizio della storia è ancora troppo giovane e successivamente il destino non sembra lasciargli spazio per una frequentazione della comunità), se la madre del protagonista accende le candele il venerdì all’imbrunire non ci è dato sapere ma la loro appartenenza non è nascosta. Anzi, dove questa può essere un traino per muovere l’interesse del pubblico, per esempio nel mercato statunitense, diventa palese il richiamo, cambiando il titolo del graphic novel in A Jew in communist Prague. In ]onas Fink essere ebrei è scaturigine degli eventi. Essere ebrei borghesi diventa, in quegli anni nelle province dell’impero sovietico come è la Cecoslovacchia, una colpa passibile di carcerazione, purghe e sofferenza, anche e soprattutto per un bambino di undici anni che sembra essere, insieme alla famiglia, scampato alla Shoah per essere consegnato “a una nuova persecuzione in nome dell’ortodossia socialista.” Se però l’ebraismo in Max Fridman è storia personale e famigliare che scorre nelle vene e sotto pelle e raramente viene in superficie, in Jonas Fink è uno stato più universale, coinvolge le persone, coinvolge gli ambienti, coinvolge l’altro protagonista della vicenda, la città di Praga che è stata una delle grandi capitali dell’ebraismo europeo, la città degli studiosi del Talmud, di rav Loew e del Golem, dove anche la terra e le pietre ne sono testimoni. L’ebraicità è qui un tema fondamentale, tanto da diventare un carattere di quest’opera di Vittorio Giardino. Questa impronta marchia la narrazione e ne esplicita il suo valore, ci spiega cioè chiaramente cosa è l’ebraismo per l’autore. Lo fa anche in questo caso con l’aiuto dei suoi inchiostri, precisi e descrittivi come una calligrafia. Nel secondo volume di Jonas Fink, Tatiana, la fidanzata del protagonista, una ragazza russa figlia di un funzionario sovietico, in uno dei momenti più drammatici del racconto scrive una preghiera tra la foresta di matzevoth, le lapidi del cimitero di Praga. Compie un atto pio, un gesto comune nella vita ebraica, non particolarmente eccezionale ma Tatiana è una goy, una gentile, una non ebrea, ed è comunque lei che all’interno della “casa della vita’ compie l’azione più dichiaratamente ebraica di tutto il libro. Giardino dunque ce lo mostra chiaramente, per lui la cultura ebraica è un valore che travalica l’appartenenza di sangue. È una cultura e come tale può essere trasmessa, può passare di mano in mano, di cuore in cuore.
Così è anche per altri autori di fumetti; Hugo Pratt per esempio o il rivoluzionario graphic novelist francese David B. Per inciso, l’autore bolognese non è ebreo. La sua appartenenza a questa cultura è un’attinenza acquisita, gli viene dalla moglie. È un valore conquistato, inglobato per osmosi; un arricchimento straordinario (sono parole sue). La signora Giardino da ragazza si chiamava Formiggini. Non è un cognome da poco, appartiene a un’antica famiglia ebraica della provincia di Modena (di Formigine appunto) che dal Rinascimento era stata di gioiellieri e finanziatori della corte Estense, mentre nella prima metà del Novecento una parte di essa si era dedicata all’editoria. Proprio conoscendo la famiglia di sua moglie, ci dice l’ingegnere: “Ho scoperto le vicende di tanti ebrei italiani. Cittadini del mondo, viaggiatori, imprenditori, sperimentatori. Eppure sempre legati all’identità originaria. Da Leopoli a Trieste, da Gerusalemme a Bologna. Legami forti, ma che non portano mai al provincialismo, al familismo”. E in questa dimensione fuori dal tempo sembra essersi calato perfettamente il nostro autore. La fretta non è affar suo. Ce lo ha dimostrato in tante occasioni, cominciando dalla lavorazione del primo volume di Max Fridman, Rapsodia ungherese, che nasce, quando ancora il termine non era di moda, come graphic novel; nasce cioè scollegato dai ritmi delle uscite cadenzate, dalla necessità di sottostare a una lunghezza predefinita del testo, ma di potersi esprimere semplicemente in quante pagine la storia necessitasse. Il suo modo di lavorare impone tempi lunghi. La sua linea ricca e precisa è lontanissima dai veloci appunti disegnati, quasi schizzati, che tanto spazio trovano oggi nel fumetto. Il suo sguardo deve poter correre tra i mille autori di riferimento, tra le pagine delle infinite letture, tra le inquadrature dei fìlm amati, tra le approfondite ricerche, tra le oceaniche conoscenze da cui affiorano, come punte di iceberg, le linee sapienti dei disegni che esplorano la vita e la Storia e con gesto affettuoso si soffermano a illuminare, tra i tanti, un mondo, quello ebraico che “da vicino” guarda con occhi limpidi.

Giorgio Albertini

(“Vittorio Giardino e l’ebraismo – La quinta verità” – Hamelin)

Alix l’intrepido

Alix l’intrepidoPubblicato a puntate durante il periodo estivo dal quotidiano francese Le Figaro, Veni, vidi, vici è il nuovo album di avventure di Alix, personaggio che ha visto la luce nel 1948, sulle pagine del Journal de Tintin, grazie a Jacques Martin. Responsabili della rinascita dell’intrepido gallo David B. e Giorgio Albertini, che hanno ripreso in mano il destino di un fumetto stampato in più di dodici milioni di copie, in tante avventure la cui uscita regolare si è interrotta nel 2010, alla morte del loro autore, per essere poi ripresa con qualche nuovo album firmato tra gli altri da Rafael Morales, Christophe Simon e Benoît Mouchart.
Inaspettato, tenuto segreto da Casterman l’editore che lo riporterà in libreria nel prossimo autunno, a metà settembre il ritorno di Alix è anche una conferma della passione per la ricostruzione storica di Giorgio Albertini, autore con Panaccione di Chronosquad un’altra serie che ricostruisce epoche lontane in maniera non solo verosimile, ma documentata con attenzione e precisione quasi maniacali.
Schermata 2018-08-03 alle 12.15.51Ambientate all’epoca della rivalità tra Cesare e Pompeo, le storie raccontano le avventure di Alix (detto “l’intrepido”), un giovane gallo adottato dal governatore romano Honorus Galla, amico e luogotenente di Cesare. Lotta contro le ingiustizie, come tutti gli eroi che si rispettino, e si accompagna spesso al giovane Enak, l’egiziano che incontra per la prima volta nell’albo intitolato “Le Sphinx d’or” (La Sfinge d’oro).
Anni di avventure nate grazie alla fantasia di Jacques Martin, ovviamente, ma piene di personaggi vissuti realmente Cesare, Cleopatra e Vercingetorige, per citare solo i più noti e ricche di elementi scenografici e della vita di tutti i giorni perfettamente ispondenti al vero: dall’abbigliamento agli oggetti di uso comune, dagli utensili ai mezzi di trasporto. Non ha mai voluto porsi come un fumetto didattico, ma le storie di Alix avrebbero benissimo potuto essere utilizzate nelle scuole come sussidio alle lezioni su quel periodo storico. Tradotte in latino e greco, le avventure di Alix hanno avuto anche una versione audio si trattò di un vinile, il classico 33 giri, per una durata di 30 minuti pubblicata dalla Musidisc, con una storia di Jacques Martin adattata e realizzata da Jean Maurel in cui a dare la voce ad Alix fu Claude Vincent. È David B. a raccontare come Albertini sia stato contattato da Casterman e l’abbia a sua volta cercato, forte di un’amicizia di lunga data, per coinvolgerlo in un progetto in cui ambedue si sono buttati con entusiasmo. “Abbiamo deciso di rimanere fedeli agli album disegnati da Jacques Martin negli anni ’50 ha spiegato Albertini La linea chiara era prevalente nel Journal di Tintin, all’epoca, e per noi è stata una scelta importante, volevamo soprattutto trovare lo spirito originale”.

a.t., Pagine Ebraiche Agosto 2018