La concorrenza tra le vittime
Quando la denuncia delle male parole, delle discriminazioni, delle violenze, delle aggressioni si trasforma in una rincorsa a chi “sta peggio”, ovvero a chi si dichiara nella condizione di “più offeso”, poiché dall’essere (o ritenersi) vittima deriverebbe un qualche beneficio, ossia il diritto ad un qualsiasi risarcimento (anche solo morale o di visibilità mediatica), allora c’è di che mettersi le mani nei capelli. Poiché l’orizzonte quotidiano sembra essere costituito da un numero incalcolabile di defraudati o vittimizzati. Fa notizia la prevaricazione contro qualcuno, non la realizzazione di qualcosa. E questo fatto deve fare riflettere, poiché sempre più spesso all’umanesimo dei diritti si sostituisce l’umanitarismo dei risarcimenti. Così come la lievitazione del valore (e dell’onerosità) di questi ultimi. Qualsiasi identità, quindi ogni individualità, sembra oramai essere degna di considerazione solo se ha da rivendicare una compensazione per un qualche torto subito. In una parossistica rincorsa a chi dice di stare peggio. Si tratta di un dispositivo infernale, che senz’altro risponde alla logica della spettacolarizzazione, per cui conta lo scalpore e fa “scena” solo la notizia per cui è l’uomo che morde il cane e non viceversa. C’è però anche dell’altro. Intanto, da tempo si è creata l’aspettativa, tipica nei pubblici degli “spettatori” (coloro che osservano e giudicano, senza sentirsi chiamati in causa direttamente: una condizione molto diffusa nelle nostre società, in anni di forte spoliticizzazione), per cui una situazione o, ancor meglio una persona, sono tanto più degne di considerazione quando rispondano ad una stato di eccezionalità. La normalità, infatti, non solo non fa notizia ma ingenera atteggiamenti di sufficienza, distacco e noia. Tuttavia, siamo tutti disposti a giurare, a parole, che ciò che andiamo cercando, per noi e i nostri cari, sia per l’appunto quella “normalità” altrimenti aborrita. Quindi, è non meno vero che ci piace osservare, scrutare a distanza le situazioni irrituali, ma molto meno condividerle. Un tale stato di aspettative non può che divenire la premessa per incentivare il ripetersi di situazioni fuori dall’ordinario, fosse non altro per alimentare la spettacolarizzazione delle comunicazioni e delle rappresentazioni. Che è un vero e proprio marketing. Segnatamente, il “conflitto israelo-palestinese” si alimenta di questo gioco di ruoli, di questi specchi delle rappresentazioni, dove ognuno ha come una parte prescrittagli da recitare, immutabile e immarcescibile: un vero viatico per lo status quo. Se chiedete in giro cosa pensino (!?) al riguardo, tra le bizzarrie che vi verranno offerte emergeranno soprattutto i cliché, quei luoghi comuni tanto feroci perché ossessivamente ripetuti, che per esistere richiedono – in fondo – che nulla cambi, nel mentre gattopardescamente ci si pronuncia invece per un “mutamento rivoluzionario”. Un’altra osservazione da aggiungere è che il risarcimento per un torto subito ha poco o nulla a che fare con la fruizione di un diritto. Se il primo compensa qualcosa che si è perduto (o che non si ritiene di non avere mai avuto), chiudendo almeno in parte con il passato di sofferenza e di privazione, il secondo crea una nuova condizione, una «facoltà» che non preesisteva e che apre, a chi ne è destinatario, orizzonti inediti di opportunità. Il risarcimento riguarda gruppi ristretti di richiedenti, il diritto si rivolge ad una ampia pluralità di persone. Se il risarcimento è il soddisfacimento di una posizione debitoria, il diritto è invece un investimento. Il terzo aspetto è che una tale vittimofilia, associata a questo bisogno di eclatanza, conduce all’ossidazione non solo del repertorio delle raffigurazioni ma anche delle interpretazioni ideologiche che si riconnettono ad esse. Il “dibattito” sul ritorno del razzismo (se ne era forse mai andato?) in Italia ne è un esempio, così quello, decisamente bislacco se formulato con vecchie categorie assai consunte, sul ritorno del fascismo. A problemi veri, ad esigenze reali, a disagi diffusi, tutti molto contemporanei poiché strettamenti legati alle trasformazioni che stiamo vivendo, corrisponde invece un repertorio di pensieri arrugginiti, di parole stinte, di enfatiche denunce alle quali, puntualmente, segue il vuoto dei fatti. È forse anche da qui che varrebbe la pena di ripartire, per non farsi ingannare da quelle che non sono necessariamente fake news bensì wrong words e misleading representations.
Claudio Vercelli
(5 agosto 2018)