Ignoranza

Emanuele CalòSandra Petrignani ha dato alle stampe La Corsara – Ritratto di Natalia Ginzburg, edito da Neri Pozza Editore, 2018, un‘opera che è entrata nella classifica dei libri più venduti, e nella quale affronta anche sia il caso di Primo Levi. sia il versante identitario della scrittrice. Trattandosi di una biografia, peraltro ponderosa, non sarebbe potuto essere altrimenti, a meno che si fosse trattato di una sede diversa – questo è successo – dove quei due aspetti fondamentali sono stati disinvoltamente ignorati, per ragioni che meriterebbero, a loro volta, un saggio.
Quando, vedova di Leone Ginzburg e con tre figli, Natalia Ginzburg nata Levi ma figlia di madre non ebrea, si risposa con Gabriele Baldini, l’autrice riferisce che la conversione (al cattolicesimo) della Ginzburg “senz’altro serve a smussare i contrasti con i Baldini”. In prosieguo, costei dichiarò “Io sono ebrea”. Non entriamo nel merito – non ne siamo capaci – ma appare evidente che avesse fatto una legittima scelta, e se anche fosse rimasta ebrea nel suo animo, si sarebbe trattato pur sempre di un suo buon diritto. Il che non toglie che sia sbagliato discorrerne senza citare la sua conversione, che non riguarda soltanto il suo stato d’animo ma coinvolge dei passi interiori ed esteriori.
Come sappiamo, Se questo è un uomo, di Primo Levi ebbe un rifiuto da parte dell’Einaudi, che lo pubblicò dodici anni dopo il rifiuto, nel 1958. Nel 1987, ricorda l’autrice, Riccardo Chiaberge, sul Corriere della Sera, solleva il caso della bocciatura del libro di Levi, diventato nel frattempo un classico “attribuendone la responsabilità – in modo larvato, ma decifrabile – a Natalia Ginzburg”. La quale Ginzburg, però, aveva portato il testo all’Einaudi, sottoponendolo a Cesare Pavese. Chiarirà, la Ginzburg: “Non ero nella posizione di poter accettare o rifiutare da sola un manoscritto”, per poi soggiungere “siamo stati dei colpevoli imbecilli, ma non degli antisemiti”, dimostrando una certa perspicacia nel distinguere genus e species.
Nel frattempo, Cesare Pavese muore suicida, lasciando un biglietto con le stesse frasi di congedo di Vladimir Majakovskij: un poeta così originale, finisce per copiare un seriore suicida (quando si dice “i paradossi”).
In prosieguo, libere associazioni mi hanno portato dal girone dei dannati di Mark Zuckerberg in quello aulico, che esprime sovente lo sdegno per siffatta rozzezza. Chi ha “ritratto” così la Ginzburg, però, dovrebbe serbare una certa gratitudine per i benefici che l’ignoranza dispensa a piene mani perché, se tale ignoranza latitasse, quella plebe social-mediatica si sarebbe accorta, come detto, che a suo tempo non era stata menzionata la sua conversione al cattolicesimo (non basta dire che la madre non era ebrea, perché atto e fatto non sono pari) né si è fatto cenno alle peripezie di “Se questo è un uomo” ma ci si è cimentati in un’intervista dove si spiega che l’ebraismo consiste nella solidarietà. La spiegazione è nel Kohelet ma, per ora, affido al lettore volenteroso l’onere di scovarla.

Emanuele Calò, giurista