Oltremare – Compere
Chiunque abbia mai visitato anche solo per turismo un ‘kolbo’, cioè uno di quegli spacci che facevano da centro di tutte le compere plausibili nei kibbutzim e moshavim della Israele di una volta, capisce istantaneamente perché gli israeliani possono passare il 45% dei loro viaggi all’estero all’interno di qualunque grande magazzino, purché appunto sia grande. Con gli scaffali spartani e mai strapieni, il freezer che contiene ere geologiche plurali, e la suprema caratteristica di avere una sola marca per ogni tipo di prodotto rappresentato, il kolbo era ed é il prototipo di tutte le mancanze che gli israeliani post-kibbutzisti cercano di colmare con shopping estremo e insulso e a volte facendo vero e proprio scandalo. Come quella volta che è arrivata fino ai telegiornali la notizia che il viaggio annuale dei liceali in Polonia, fatto per visitare i campi di sterminio e rinforzare la cultura e il patriottismo dei giovani pochi mesi prima dell’entrata nell’esercito, comprendeva lunghe pause di riflessione nei grandi magazzini locali. Sullo shopping come calmante e come mezzo per entrare in contatto con culture diverse si può poi parlare altrove, e si può dire perfino che in fondo essere normali clienti di un negozio in Polonia è un’altra dimensione, un po’ più terra-terra, del far volare la nostra aviazione sui camini spenti del luogo in cui avremmo dovuto essere tutti sterminati. E certo questo è un caso estremo, ma per misurare il nostro atavico bisogno di compere basta ritornare in Israele da un viaggio oltremare e contare quanti amici mi accolgono dicendo “bentornata! e cosa hai comperato?” E vedere quanto ci restano male se rispondo “niente, non ho avuto tempo per lo shopping”. Sguardi costernati, non sanno cosa dire. Siamo una nazione post-kolbo.
Daniela Fubini