Il ponte di legno
Diversi anni fa, durante un’assemblea tenutarsi in una scuola, dinanzi al problema esposto dal preside sulla onerosità finanziaria di cui ci si doveva fare carico per garantire l’ammodernamento di un efficace sistema di sicurezza antincendio, un genitore, accalorato e paonazzo, già spazientito dalla lungaggine del confronto di opinione, interruppe rabbiosamente la discussione in corso affermando con voce tonante: «Che si facciano di legno le nuove scale di sicurezza! Costano molto di meno! Quale problema c’è?». Per sua inconsapevole fortuna, i più gli risposero sorridendo amaramente e cercarono di andare oltre (ma lui perseverò nel tediarli). Al di là del ricordo che si fa aneddoto, un tale episodio spalanca la porta su quello che è un po’ lo spirito del tempo che stiamo vivendo. La tragica vicenda del ponte Morandi di Genova, e soprattutto della ridda di reazioni che ha ingenerato, a partire da quelle dei poteri pubblici, ne è l’enneismo riscontro. Se la formula offerta da una politica in eterna campagna elettorale è quella della promessa di una via verso la banalizzazione sistematica di problemi complessi, sul versante degli elettori il senso di smarrimento viene sempre più spesso combattuto con armi caricate a salve. Veniamo quindi al dunque di queste righe. C’è un moto delle spirito che per tanti è nobile ma che invece ci incatena proprio a quei ceppi dei quali diciamo invece di volerci liberare. È l’eterna indignazione, quell’effervescenza morale fine a sé poiché esaurisce i suoi effetti nel momento stesso della manifestazione. E che tuttavia per il fatto medesimo di ripetersi ossessivamente, va poi stratificandosi in un sentire risentito, rancoroso, giustizialista o comunque basato sul desiderio della rivalsa. L’indignazione – infatti – non risponde ad un progetto politico ma, su un piano molto più elementare, al bisogno di differenziarsi da ciò che sta avvenendo e, soprattutto, da coloro che sono ritenuti responsabili delle cause che originano il disagio comune: malaffare, immobilismo, clientelismi, nepotismi, anche e soprattutto diseguaglianze crescenti; in una sola espressione, il senso della palude determinato dall’angoscia per un Paese ripiegato su di sé, tale perché inghiotte gli individui e la loro dignità senza offrirgli la speranza del futuro. L’indignazione è un comprensibile sentimento che, tuttavia, oramai si rivela essere un cane che rischia di mordersi la coda. Poiché vive di luce sua propria, non è autoriflessiva, non costituisce il volano per andare “oltre l’esistente”. Nella storia, la formulazione di risposte a macroproblemi di ordine politico, che coinvolgono l’intera collettività, in termini esclusivamente morali (e moralistici, nonché giustizialisti: «al rogo i ladri, i malfattori e i traditori!»), genera miraggi e quindi delusioni. Ancora di più, crea le premesse affinché abbiano seguito ingannevoli speranze («arriviamo noi e facciamo pulizia del marciume esistente»), come tali facilmente sottoscrivibili dai molti; destinate però, nell’atto pratico, a rivelarsi nel loro esatto opposto, ossia distopie dannosissime. Al cui estremo ultimo c’è, paradossalmente, il rafforzamento di quanto si dice di volere invece sostituire. Poiché si presenta, a quel punto, come l’unico elemento d’ordine in mezzo al fluttuare del disordine causato dall’entropia che nel mentre è subentrata. Non a caso, la soluzione autoritaria (tale perché impositiva e coercitiva, avulsa da qualsiasi vaglio collettivo e dal giudizio della società) è il risultato di questo stato di crescente disordine. L’ossatura del pensare moralistico, che in sé esprime soprattutto il senso di impotenza che accomuna tante persone – e non certo una capacità progettuale in grado di andare oltre al già dato – è tanto lineare quanto ripetibile all’infinito. Soprattutto se la si analizza nella sua ossatura: 1) la riduzione della vita in comune ad un meccanismo irriflessivo di azioni e reazioni, dove la comprensione della complessità di qualsiasi legame si frantuma nella sua totale banalizzazione; 2) la dicotomia tra “noi”, i buoni, e gli “altri”, i cattivi: neutralizzati i secondi, il governo delle virtù non potrà che subentrare; 3) la spasmodica ricerca di una fittizia soluzione non attraverso il sodalizio e l’alleanza per ottenere una risorsa ma l’attribuzione di una colpa a qualcuno di immediatamente identificabile (ed è questa rabbiosità, che si accompagna al capro espiatorio a costituire il vero legame tra gli “indignati”; 4) la voluta incapacità di considerare gli effetti di medio e lungo periodo (in termini di oneri, costi ma anche eterogenesi dei risultati) di certe scelte, quand’anche essi siano già di per sé evidenti, ovvero senza che vadano studiati; 5) infine (e soprattutto) il rifiuto del principio di responsabilità politica che si accompagna sempre e comunque all’esercizio dei diritti di cittadinanza. Più banalmente, il rifiuto della responsabilità tout court, nel nome di una presunta innocenza propria che mai e poi mai potrà essere messa in discussione, men che meno dal principio di realtà. Piuttosto, tanto peggio per quest’ultimo. Ovvero, della virginalità come stato adamitico permanente (che è poi ciò che certi movimenti politici offrono agli elettori, come una specie di resettamento collettivo della ragionevolezza, a favore di una umoralità maniacale).
Claudio Vercelli
(19 agosto 2018)