Pagine Ebraiche agosto 2018
Cosa fare per noi stessi
C’è un versetto della Torah che leggeremo nella Parashah dell’ultimo Shabbat dell’anno (Nitzavim) e che ripeteremo in ciascuna delle Tefillot di Yom Kippur al termine della Confessione dei Peccati. Il versetto dice: “Le cose nascoste appartengono a H. nostro D., mentre quelle manifeste sono per noi e i nostri figli in eterno affinché mettiamo in pratica tutte le parole di questa Torah” (Devarim 29,28). Che cosa si intende per “cose nascoste” e “cose manifeste”, dalle quali dipenderebbe il destino della nostra Torah? E poi, cosa c’entrano “i nostri figli” in tutto questo discorso? Infine mi domando io: perché scegliere proprio questo versetto a conclusione del Widduy? Su quale importante trasgressione vuole farci riflettere?
Posto a conclusione di uno degli ultimi capitoli della Torah, questo versetto contiene un messaggio programmatico. È quanto rileva il Maor wa-Shemesh, un commento chassidico di grande attualità e profondità. L’adesione ideale alle Mitzwot –scrive il nostro commentatore- non consiste tanto nella loro esecuzione pratica, quanto nel sentimento che le accompagna, perché lo scopo della Torah è creare in noi una personalità e un carattere e le singole Mitzwot sono asservite a questa finalità. A ciò alluderebbe la prima parte del versetto: “Le cose nascoste appartengono a H. nostro D.” Ciò che per D. conta al di sopra di ogni altra cosa è la nostra interiorità che agli altri non è visibile. Molti benpensanti in buona fede la pensano in modo analogo: essi si riferiscono all’osservanza esteriore della Torah come componente puramente formale e sostengono che quella sostanziale risiede invece proprio nel nostro cuore.
Ma il cuore, ancorché sia al centro della nostra umanità, non basta. Il Maor wa-Shemesh sostiene che l’esteriorità è comunque fondamentale se non altro per uno scopo preciso: educare i nostri figli a seguirci. Se ci basassimo su qualcosa di esclusivamente interiore i nostri figli, che pure sono le persone a noi più legate, non sarebbero in grado di coglierlo in noi e di apprezzarlo. Anche la Torah richiede la sua visibilità. È per trasmettere ai nostri figli l’importanza del messaggio che dobbiamo viverlo nella pratica esteriore. A questo allude la parte finale del versetto: “mentre le cose manifeste sono per noi e i nostri figli in eterno affinché mettiamo in pratica tutte le parole di questa Torah”. Ben si comprende a questo punto il riferimento ai nostri figli e all’eternità della Torah. Se vogliamo che essa passi a una nuova generazione occorre metterla in pratica, nel senso letterale del termine. Non sono sufficienti i significati dei precetti e le interpretazioni metaforiche. Non bastano la storia e la filosofia. In una sola parola, la Torah deve essere vissuta per ciò che ci chiede di fare.
E se non ci trovassimo nella condizione di dovere educare dei figli o dei nipoti? Il versetto risponde a questo aggiungendo la parolina “per noi”: facciamolo comunque per noi stessi. Non solo una famiglia, ma neppure una Comunità si costruisce sulla sola dimensione interiore dei suoi membri. Il gruppo richiede comportamenti manifesti e condivisi nel solco di quella tradizione che ha tenuto vivo il nostro popolo per secoli. La crisi del mondo ebraico, specialmente in Italia, è sotto gli occhi di tutti. Voglio richiamare l’attenzione in particolare su due punti nevralgici della nostra vita comunitaria. Tantissimi giovani si astengono dal creare una famiglia. A ciò concorre certamente una difficile congiuntura economica che impedisce a molti di loro di accedere a una posizione lavorativa stabile. Ma questa scusante non vale in tutti i casi. Sembra piuttosto di trovarsi dinanzi a una vera e propria mentalità dettata dalla società globale. Al cuor non si comanda, ma ciò è vero fino a un certo punto: occorre far intervenire la mente e la pratica. Noi Ebrei siamo depositari di un messaggio che può essere portato avanti in un modo soltanto. La nostra tradizione si fonda sull’educazione dei figli e affida questo progetto ai genitori. Per questo è necessario attivare una politica di incentivazione del matrimonio ebraico.
Se il matrimonio ebraico è finalizzato all’educazione dei figli, è anche vero l’inverso. Non si perviene a nuovi matrimoni ebraici senza aver educato ragazzi e ragazze nella giusta direzione. Una volta trascorsa l’età del Bar/Bat Mitzwah molti giovani si perdono e non tornano più. Occorre indagare sulle cause di questo fenomeno drammatico. Oggi viviamo in un’epoca di alta specializzazione. L’ignoranza è penalizzante e in definitiva colpevole. Come avviene in altre discipline, solo chi avrà acquisito sufficienti conoscenze sarà motivato un domani a vivere la Comunità Ebraica con consapevolezza e cognizione di causa.
Non è più sufficiente domandarsi cosa debbono fare gli altri per noi, e neanche cosa siamo in grado di fare noi per gli altri. È giunto il momento di interrogarci su che cosa possiamo ancora fare noi per noi stessi. Per scongiurare una Shoah spirituale di cui noi stessi siamo i principali responsabili. E se non ci affrettiamo a darci una risposta, “liberazione e salvezza arriveranno agli Ebrei in altre parti del mondo”. Ma noi ci saremo auto-esclusi. Ciò è un peccato in tutti i sensi: un’occasione tristemente perduta, ma anche una grave colpa di cui chiedere perdono al S.B. onde porvi rimedio. “Sia gradito dinanzi al S.B. di darci la parte nostra e quella della nostra discendenza nella Tua Torah”. In prospettiva, Shanah Tovah a tutti.
Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche agosto 2018