Architettura, storia di una vita

ascDagli anni della guerra, a ridosso dei quali Gianni Ascarelli è nato, al periodo della formazione, al primo Studio Transit nel 1972, fino al racconto – come scrive Franco Purini – “di un’esperienza esistenziale, e di un progetto di vita”. Continuità e discontinuità, certezze e dubbi, permanenze e mutamenti, in un percorso tipico di ogni mondo plurale. Le architetture dello Studio Transit ne sono compiuta rappresentazione. ’38 vs ’18. Una storia di architettura è un libro di memorie e lavoro, pubblicato da Quodlibet con questa introduzione del rav Riccardo Di Segni.

Dopo i primi libri, più concentrati sui primi anni di vita e i viaggi di conoscenza giovanile, questo libro potrebbe essere considerato come la terza puntata di una biografia professionale di un architetto. Ora chi scrive è il professionista affermato che parte dagli studi universitari per raccontare una lunga carriera condotta insieme a una squadra affiatata e creativa. Per un lettore come me, di formazione professionale completamente diversa e con interessi e competenze architettoniche piuttosto superficiali (malgrado la frequentazione coniugale di un architetto…), questo libro è una sorpresa e un percorso educativo. Una sorpresa, perché è impressionante la quantità e la qualità degli interventi descritti, alcuni visti da me raramente, altri più spesso, ma dei quali ignoravo la mano e l’identità del progettista, immergendomi con imperdonabile leggerezza nel panorama complicato e anonimo della città dove vivo. Ora invece posso dire che “quello” l’ha fatto una persona che conosco, e tutto il mio rapporto con quello spazio cambia e si riveste di un significato particolare. Un percorso educativo perché anche se dopo la sollecitazione di un autore sono costretto a guardarmi intorno con un altro occhio, che non sarà mai quello professionale, ma almeno quello del curioso. In tutta questa storia di vita architettonica, almeno un paio di considerazioni meritano di essere esposte. La prima è la constatazione della presenza e della incisività nella vita quotidiana e nella costruzione continua di Roma (in realtà un po’ lenta in questa città) dell’opera di un architetto che discende da un’antica e nota famiglia ebraica romana; una dimostrazione di quanto sia varia, nuova e autorevole la professionalità delle famiglie ebraiche anche al di fuori delle tradizionali attività economiche. La seconda considerazione è più una domanda: quanto la radice ebraica del singolo architetto abbia guidato più o meno inconsciamente le sue scelte; domanda a cui si dovrebbe rispondere senza cedere a seduttive ipotesi di idealizzazione (care a Bruno Zevi, Maestro riconosciuto da Ascarelli, qui citato); potrebbe essere difficile dimostrare le radici ebraiche in altre professioni, in un avvocato, un commercialista, un medico se non nel piano della passione e dell’impegno etico; ma nella creatività e nelle altre doti che fanno un architetto di successo, l’ebraicità qualcosa di più o almeno di diverso potrebbe o dovrebbe darla. Di qui l’invito, almeno ai lettori più curiosi e attenti, a tentare di dare una risposta a questa domanda. Tra gli ebrei l’importanza di un testo si vede dai commenti che gli vengono aggiunti.

Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

(24 agosto 2018)