Periscopio – Il Noah Day
Il prossimo 2 settembre la città americana di Grand Island celebrerà (per la terza volta, essendo tale onoranza stata creata nel 2016) il “Mordecai Manuel Noah Day”, per ricordare la figura e i meriti storici di questo personaggio singolare e visionario. E, anche se non siamo a Grand Island, né in America, e anche se il nome di Noah a molte persone – anche informate di cose ebraiche – risulterà sconosciuto, ritengo opportuno scrivere due righe per rendere omaggio a questa significativa figura della storia ebraica e statunitense, la cui opera rappresenta un momento importante del lungo e complesso processo di emancipazione del popolo ebraico nel Nuovo Mondo, nonché della stessa affermazione dell’idea sionista, di cui Noah rappresenta – accanto a Moshe Hess e a Leo Pinsker, ma prima di loro – un precursore.
Nato negli Stati Uniti, Noah (1785-1851) riuscì ad affermarsi sul piano dell’impegno pubblico, fino a diventare – in anni segnati da un marcato antisemitismo – primo sceriffo ebreo di New York. Avendo sperimentato personalmente la forte ostilità con cui gli ebrei dovevano quotidianamente fare i conti, Noah si pose alla ricerca di una soluzione, che, analogamente a quanto avrebbe poi fatto Theodor Herzl, indicò, anch’egli, nella fondazione di uno Stato ebraico. Questo, però, non avrebbe dovuto sorgere in Palestina (né in Argentina, l’altro posto, com’è noto, menzionato da Herzl in Der Judenstaat), bensì nella Grand Island, sul fiume Niagara, vicino Buffalo: una grande isola, di più di 17.000 acri, all’epoca disabitata, che gli sembrò adatta al progetto.
Originariamente pensò di chiamare la colonia Jerusalem, ma poi preferì il nome Ararat (il monte, com’è noto, dove si sarebbe fermata l’arca di Noè). Noah si era infatti convinto che alcuni dei nativi americani sarebbero stati discendenti delle dieci tribù disperse d’Israele, per cui – come scrisse in un suo Discourse on the Restoration of the Jews – gli sembrò naturale che gli ebrei ricostruissero la loro patria perduta proprio in terra d’America, dove già vivevano dei loro antichi connazionali, sia pure staccatisi e dimentichi delle proprie lontane origini. Presso la Buffalo Historical Society si può ancora oggi visionare la targa forgiata per segnare l’inaugurazione della rinata “Terra Promessa”, e che fu ufficialmente presentata il 15 settembre 1825, ricevendo larga attenzione da parte della stampa: “Ararat, a city of refugee for Jews, founded by Mordecai M. Noah in the month of Tishrei 5586, september 1825 and in the 50th year of American independence”.
L’idea di Noah, comprensibilmente, suscitò molta ostilità tra gli ebrei americani (così come, settant’anni dopo, sarebbe stato osteggiata la visione di Herzl), che accusarono il novello Mosè, tra l’altro, di vanagloria e interessi personali (si era autoproclamato, per esempio, “Governatore e Giudice d’Isarele”), lasciandolo solo nel suo progetto. Lo stesso Noah, però, non aveva ancora mai messo piede a Grand Island, e quando, per la prima volta, lo fece, si accorse rapidamente che il piano non era di facile attuazione, tanto che lo abbandonò rapidamente.
È evidente, anche alla luce dell’insegnamento della storia, che l’idea di Ararat era irrealizzabile, in quanto la confederazione degli Stati Uniti d’America non avrebbe mai potuto ammettere, al suo interno, l’esistenza di uno stato abitato e governato da un’unica componente etnica e religiosa. Ma è chiaro che tale impossibile utopia va contestualizzata nell’epoca in cui fu pensata, alla luce del forte antisemitismo che la segnava, e che portava a dubitare che in America potesse esserci un posto per gli ebrei, accanto ai cristiani. E restano di eterna attualità, soprattutto, le parole pronunciate da Noah in occasione dell’inaugurazione del mai nato stato di Ararat: “Why should the parent of the nations, the oldest of people, the founders of religion, wander among the governments of Earth, entreating succor and protection when we are capable of protection ourselves?”. Parole che sintetizzano in pieno l’essenza del sionismo, e anche le ragioni dell’avversione contro di esso. Il mondo, abituato, da lunghi secoli, a perseguitare o proteggere gli ebrei, non riesce a capire come essi possano oggi badare, da soli, ed egregiamente, a se stessi.
Francesco Lucrezi, storico
(29 agosto 2018)