L’incontinente nero
Un partito, un tempo espressione dei «lavoratori», dinanzi alle sue ripetute difficoltà elettorali si pone il problema di cambiare nome per preservare almeno una parte del suo insediamento elettorale, senza interrogarsi sulla sostanza della sua proposta politica (ovvero, la sua assenza). Un politico, assurto al ruolo di sottosegretario, presenta un dato macroeconomico chiaramente negativo, indicatore di una tendenza di fondo che va purtroppo consolidandosi, come il suo esatto opposto, ribaltando completamente il senso dell’informazione. Dopo un atto di violenza privata, a Chemnitz (già «Karl-Marx-Stadt», niente di meno!), in Germania, prima si susseguono scontri tra hooligans e “stranieri”, poi l’estrema destra (capitanata da un signore, Björn Höcke, leader dell’ala radicale del partito Alternative für Deutschland, che ha definito il memoriale berlinese della Shoah «una vergogna») scende in piazza con un corteo unitario delle componenti più xenofobe e radicali. E così via, con la prospettiva che l’Europa di qui a non molti anni si trasformi in un Continente scuro, ma non per via dell’immigrazione di persone dalla pelle di colore. Cosa accomuna questi fenomeni (declino, probabilmente irreversibile, delle formazioni politiche nate in età industriale; proliferazione delle fake news non più come falsi, bensì come letture capovolte della realtà, in quanto tali bene accette da una parte della pubblica opinione; costante cortocircuito sui temi sensibili, come la presenza nelle nostre società di immigrati) a molti altri? Difficile trovare un unico denominatore. Tuttavia qualche considerazione di principio può essere svolta. Nelle dinamiche che stiamo vivendo un po’ in tutta Europa, infatti, entra prepotentemente in gioco la trasformazione profonda dello statuto del lavoro, ovvero della sua funzione sociale. Si tratta di un processo di lungo periodo, che si confronta con gli effetti della globalizzazione. Ha dei riflessi molto forti sul piano generazionale, creando degli scompensi, degli squilibri e dei cambiamenti profondissimi anche nelle identità delle persone. Quindi, nella stessa idea di cittadinanza. Che ciò sia di per sé un terreno fertile per proposte radicali, è un primo dato. Chi non si sente inserito dentro un percorso di integrazione vive una condizione incerta, che lo può rendere maggiormente sensibile ai richiami più estremi. Segno ulteriore di impotenza, quest’ultimo, ma senz’altro segno anche di una residua vitalità. Un secondo elemento rimanda ad un’altra crisi, quella della rappresentanza politica e della sistematica delegittimazione dei “vecchi” gruppi dirigenti. Un percorso che in Italia data ad almeno gli anni Ottanta e che in Europa è divenuta oramai un fatto endemico. Cosa vuol dire, e soprattutto cosa implica? Si tratta del costante richiamo al nesso tra politica in quanto regno del malaffare, del marcio, dello sporco e del corrotto, da un lato, e tentazione a ricorrere all’auto-rappresentanza dall’altro. È il risultato della polemica conto la cosiddetta «partitocrazia», trasformatasi poi, nel corso del tempo, da sfiducia diffusa in diffidenza sistematica e poi in rifiuto degli stessi meccanismi istituzionali che regolano la vita associata. Come a volere dire: «se gli altri ti tradiscono, perché devi continuare a offrirgli una delega in bianco? Non puoi fare a meno di organismi collettivi che, per il fatto stesso di esistere, ti espropriano del tuo spazio di libertà?». Si tratta infatti del sogno di una «democrazia diretta», assai fallace alla prova dei fatti ma avvincente sul piano dell’immaginazione, in assoluta consonanza con i paradigmi ideologici di una visione dei rapporti sociali dove a contare è solo l’individuo, inteso come una sorta di atomo, che quindi si preserva da sé. In realtà, ogni idealizzazione relativa a forme di democrazia diretta in società complesse quali quelle odierne, è non solo fuorviante ma, paradossalmente, indirizzata a rafforzare proprio ciò che dice di volere invece combattere, ossia la delega. Che in questi casi si fa ancora più assolutistica, riposando infatti nell’investitura esclusiva a favore della volontà insindacabile di un capo carismatico. Il quale sommerebbe in se stesso la capacità di prevedere e di provvedere ai bisogni della collettività. Al centro della polemica sulla delega, infatti, c’è spesso l’obiettivo di distruggere lo spazio dell’intermediazione esercitato dagli organismi di rappresentanza di massa. Poiché se la delega di rappresentanza rimane insopprimibile in una democrazia dei corpi intermedi, pur da parziale e condizionata come è nei fatti, rischia invece di trasformarsi in totale e definitiva nei movimenti e nei regimi antipluralisti. Infatti, elemento fondamentale ed unificante nel discorso delle destre radicali è la riduzione della politica a cosa “sporca”. Del pari, la mediazione tra interessi contrapposti è denunciata come intollerabile perché manifestazione di un’innaturale divisione tra gruppi e fazioni in una società che deve invece essere ricomposta in una sorta di unità organica. La controproposta di ripristinare un campo di virtù collettive, da imporre anche autoritariamente è quindi qualcosa che sta al cuore del modo di pensare radicale. È offerta come la soluzione ai problemi di mancanza di moralità nell’agone pubblico, nel mentre la collettività rischia di essere infettata dal morbo della corruzione. Se il discorso sull’«identità» assume quindi i connotati soprattutto del rifiuto dell’esistente (in quanto laido, sporco, insano, soprattutto “impuro”), il discorso politico che ne emerge si esime dall’obbligo di avere dei concreti punti programmatici, rifacendosi semmai a quelli che presenta come puri valori eterni, metastorici, immodificabili, dove ciò che fuoriesce da un tale contesto è censurato aprioristicamente poiché degenerato e corrotto. Si governa il territorio abbandonato a sé, quindi, con un discorso di nuova moralizzazione. La quale consiste non solo nel dire cosa sia giusto e cosa non lo sia ma nel presentare il lavoro politico essenzialmente come un esercizio missionario, alla conclusione del quale chi ha diritto a fare parte della comunità di popolo avrà il suo posto mentre gli “altri”, gli estranei, ne saranno finalmente esclusi. Con le buone maniere o con le cattive. Con la persuasione o con la coercizione. In tale ottica, anche andare in gruppo a compiere un’aggressione ad un campo nomadi viene presentata non come un’azione violenta bensì in quanto esercizio di autotutela, che la “vera” società, quella radicata sul “suo” territorio, del quale rivendica il possesso fisico, il controllo totale, realizza nel proprio interesse. Il rimando al caso ungherese è esplicativo. Il premier Viktor Orbán non si deve confrontare con il concreto problema di un eccesso di profughi e di immigrati. Tuttavia, sulle angosce da invasione e da espropriazione («occupano la nostra terra, il nostro spazio vitale, distruggono le nostre tradizioni e minano la coesione tra i magiari!»), sta confermando le fortune della sua traiettoria politica, da ex liberale oramai transitato verso sponde nazionaliste e xenofobe. Su questo immaginario ossessivo, maniacale, pervasivo, su quello che alcuni studiosi hanno efficacemente definito come «panico identitario» – cioè la paura di non sapere più chi si è o cosa si è diventati, poiché non si hanno punti di riferimento, né tantomeno speranze per un futuro migliore – germinano quindi le istanze della destra radicale. Ne deriva e ne consegue il discorso contro le élite. Sono presentate come il prodotto di una globalizzazione senza volto, sono lo spirito borghese cosmopolita, quindi senza patria, gli “eurocrati” spietati, i banchieri e gli speculatori, tracotante espressione dei gruppi di pressione, delle «massonerie», dei poteri forti e così via. Tutti coalizzati contro il territorio e la nazione. A ciò il radicalismo oppone la suggestiva difesa del «sano lavoro nazionale», quello manifatturiero, quello artigianale, quello manuale, contro le astrazioni della rivoluzione informatica. Il tema dell’immigrazione, vista essenzialmente non solo come un’azione di espropriazione dei beni collettivi da parte di popoli alieni e abusivi ma come un’azione di contaminazione dei caratteri della «stirpe», è oramai parte anch’esso nel bagaglio di un certo comune percepire. Gli «immigrati» non sono solo coloro che vengono a «rubare il lavoro» ma anche quelli che intendono violare l’integrità del corpo sociale, la sua coesione, ancora una volta la sua intrinseca «purezza». Tali costrutti si rifanno a un consolidato immaginario antisemitico, che è l’archetipo per i razzismi presenti e a venire, in tutta l’Europa. A volere ribadire che «l’ebreo è quello che sembra come te ma non lo è per davvero; semmai è contro di te. Nel momento stesso in cui ti sta accanto, penetra dentro di te, ti possiede e ti svuota della tua linfa vitale». Questa mitografia, ovvero una tale fantasmagoria ideologica, allora come oggi, risulta molto pregnante per un certo tipo di subcultura diffusa, basata sulla politica della paura. Sono infatti immagini angoscianti che ritornano. Sono pulsioni presenti e pressanti nelle idealizzazioni negative di quella parte della collettività che si sente abbandonata e che cerca quindi una guida alla quale rifarsi. All’attacco contro le élite borghesi si accompagna infine il recupero del discorso aristocratico: poiché la democrazia non solo non è utile né necessaria in quanto non protegge, essendo semmai corruzione, l’autentica forma di rappresentanza della collettività è semmai il ritorno al governo dell’«aristocrazia dello spirito». La quale è costituita da pochi individui, investiti di una funzione carismatica, che non deriva dalla scelta esercitata attraverso il voto dal basso ma per il tramite di una sorta di selezione “naturale”. Il capo, infatti, non è individuato dal gruppo ma si impone per le sue doti sovraumane. Richiede obbedienza, in cambio offre tutela. Domanda fedeltà nel mentre garantisce identificazione. A modo suo, è la promessa di un domani a venire per il fatto stesso di manifestarsi come sovrano, tale poiché capace di governare certi processi. Il problema è che in quel domani dovremo tutti continuare in qualche modo a coesistere, con la prospettiva di avere a che fare, al posto della pallida creatura chiamata Unione europea, con qualcosa d’altro, assai più colorato ma non nel senso dell’arcobaleno.
Claudio Vercelli
(2 settembre 2018)