STORIA Ricordiamoci Carlo Levi: la paura ci ruba la libertà

Schermata 2018-09-04 alle 12.29.12Carlo Levi / PAURA DELLA LIBERTÀ / Neri Pozza

Nell’inverno 1939-40, sulle rive dell’Atlantico con alle spalle un continente sempre più nazificato, Carlo Levi si confronta con la Storia. Ne nasce Paura della libertà, un testo che poi pubblica nel 1946 e che in queste settimane l’editore Neri Pozza ha ripubblicato con una introduzione sapida di Giorgio Agamben. Quando a guerra finita e a liberazione avvenuta si tratta di fare i conti con ciò che è stato, ma anche con ciò che resta, perché la condizione di liberazione non significa libertà quel rovello ritorna. L’imperativo è la necessità di un percorso che metta al centro quella voglia di schiavitù che aveva connotato l’Europa di ieri. Nel settembre 1944, in La Nazione del Popolo, un periodico che dirige nella Firenze appena liberata, quel rovello sulla paura della libertà ritorna. In un testo dal titolo significativo Razzismo e idolatria statale, che credo sarebbe un ottimo esercizio per riflettere non in maniera celebrativa ma inquieta sull’anniversario della legislazione razziale in Italia, scrive: “Il nazismo (e il fascismo, suo corrotto e compromesso equivalente nostrano) fu uno scoppio di forze irrazionali, in un mondo troppo meccanizzato. Il suo motivo fondamentale fu la paura elementare, la paura dell’uomo, che è nell’uomo, la paura della libertà. Dopo un secolo di carlo levi«progresso», una stanchezza mortale si impadronì degli uomini; e una guerra mondiale li mise, impreparati, a contatto col perduto, oscuro mondo del sangue e della morte. La libertà parve realmente ritrarsi dalla vita europea, imbarbarita o isterilita. Il concetto di popolo, che è infinita differenziazione creativa, si mutò in quello di massa, che è primitiva indistinzione passiva. Lo Stato si fece Stato di massa, vale a dire rinnegò la propria esistenza; si fece totalitario, cioè si staccò dagli uomini, e non tollerò la persona umana”. In questo testo c’è un aspetto che merita di essere sottolineato in un’epoca, quale quella che noi oggi viviamo, di apparente disincanto per la dimensione politica e pubblica. Nella descrizione del rapporto tra cittadino e Stato – ma più correttamente si potrebbe dire tra potere e suddito – che Levi pone indubitabilmente al centro di quelle sue pagine, si colloca la denuncia di un eccesso della politica proprio sulla base e in forza di una sua spoliazione, ovvero in relazione e in conseguenza di una depoliticizzazione dell’individuo. Non è l’unico paradosso su cui Levi lavora, ma è uno dei tanti ossimori che è bene tenere a mente. È il filo tenue, ma tenace su cui si innesta la riflessione sul tema delle autonomie, l’individuo e le masse e su cui si esprime la continuità forse più autentica tra il quadro opprimente di Paura della libertà, le pagine di Cristo si è fermato a Eboli e il resoconto amaro de L’Orologio. Ma per certi aspetti è anche il filo che si consegna a noi, qui e ora. La paura è un grande tema politico. Noi siamo usciti dal XX secolo ritenendo che il racconto dell’orrore fosse il viatico migliore per costruire cittadini più consapevoli, anzi per fare in modo che uomini e donne divenissero primariamente cittadini consapevoli. Se consideriamo la nostra quotidianità si dovrà rilevare che l’orrore e la sua narrazione non insegnano molto. È la paura, invece, che costituisce la macchina generativa del potere. Un potere che proprio mentre denuncia i mali della politica e tenta di accreditarsi attraverso l’offerta di protezione salvifica, riconferma il carattere alienante ed espropriatore della decisione politica. Non è forse questo il linguaggio che quotidianamente caratterizza il nostro tempo ora?

David Bidussa, storico sociale delle idee
Pagine Ebraiche, agosto 2018