1938-2018 L’antifascismo non capì l’Italia delle leggi razziste
Nel settembre del 1938, quando il regime fascista adottò le leggi razziali che trasformarono la vita dei cinquantamila ebrei italiani, nessuno prese le loro difese. Dalla Santa Sede, «L’Osservatore Romano» protestò perché venivano vietati i matrimoni misti, ma autorevoli intellettuali e noti politici si guardarono bene dal criticare pubblicamente i provvedimenti antiebraici. È vero che in uno Stato totalitario il pluralismo delle opinioni politiche è perseguito legalmente, e che se qualcuno fosse stato contrario avrebbe avuto non pochi problemi a esprimere il proprio punto di vista. Ma come spiegare la reazione della sinistra antifascista che, salvo rare eccezioni, non si interrogò sulle cause e sulla natura della legislazione razziale? Da una ricognizione quantitativa risulta che nel periodo 1897-1921, i giornali della sinistra pubblicarono circa seicento articoli sull’antisemitismo europeo, mentre negli anni 1922-1943, sugli stessi periodici, non si trovano più di trecento contributi. Nel momento in cui la violenza contro gli ebrei divenne un fatto politico di rilevanza nazionale e internazionale, con l’avvento di Adolf Hitler al potere e l’adozione in Italia di provvedimenti antiebraici, l’antifascismo non le riconobbe l’attenzione che ci si potrebbe aspettare. La prima ragione risiede nella trasformazione della società italiana in uno Stato totalitario a partito unico. Alla fine del 1926 quasi tutti i dirigenti della sinistra erano stati arrestati e condannati a molti anni di reclusione. Chi era riuscito a fuggire affrontava la realtà dell’esilio, della solitudine e della sconfitta, disponendo di poche informazioni, per lo più ricavate dalla stampa di regime. Impegnati in una battaglia per la propria sopravvivenza, braccati da una rete capillare di informatori, gli antifascisti non sentivano come prioritario il tema dell’antisemitismo. E comprensibile immaginando la vita di uomini sconfitti, lontani dal loro Paese e dalle loro famiglie. D’altra parte, la realtà della clandestinità non è sufficiente a spiegare la sottovalutazione del problema, che dipese per un verso dalla cultura politica della sinistra, per un altro da una particolare interpretazione della storia d’Italia. Come emerge dalle pagine de «Lo Stato Operaio» (la rivista fondata dal leader comunista Palmiro Togliatti nel 1927) dell’estate del 1938, per i marxisti italiani «la lotta antisemita» costituiva un «tentativo grossolano di far divergere le preoccupazioni crescenti e il malcontento delle masse popolari» «verso l’obiettivo di una lotta contro gli ebrei», un fatto «sovrastrutturale». Era, dunque, un aspetto della lotta di classe, uno strumento utilizzato dalla borghesia per esercitare la propria egemonia sulle classi subalterne. All’interno di questo orizzonte ideologico, nessuno si chiese perché proprio gli ebrei fossero oggetto di una persecuzione che non aveva precedenti nella storia dell’Italia unita. Addirittura sull’«Avanti!» socialista un anonimo collaboratore si fece sfuggire uno stereotipo antisemita e nel luglio del 1938 scrisse che gli ebrei erano pericolosi due volte: come «capitalisti» e come «fascisti» — proprio in quanto «capitalisti», erano stati «fascisti entusiasti fin dall’inizio». Del resto, il fatto che la svolta antisemita avesse messo in allarme i Paesi «democratici», rimasti «insensibili alle persecuzioni dei proletari italiani», che fosse scattata un’immediata «solidarietà di classe», collocava gli et sto a quello del proletariato. Accanto alle difficoltà del marxismo di immaginare altra forma di violenza al di fuori di quella di classe c’era poi una considerazione più generale: per la sinistra fascista le masse proletarie non erano antisemite e tantomeno fasciste. Si trattava di una delle versioni del mito del «bravo italiano», per cui ad essere razzisti erano sì i fascisti ma non gli italiani. Nel dicembre 1938 Angelica Balabanoff, la segretaria del Partito socialista massimalista, quello più vicino alle posizioni dei comunisti e della Terza Internazionale, si diceva convinta che l’antisemitismo non avrebbe trovato terreno fertile in Italia sia per l’esiguità della comunità ebraica sia perché incompatibile con il carattere e la mentalità del paese. In realtà, nel mondo della sinistra, solo Giustizia e Libertà, il piccolo movimento fondato nel 1929 da Carlo Rosselli, a cui aderirono molti intellettuali ebrei, e il Partito socialista riformista, che dal 1930 era guidato da Pietro Nenni, dedicarono attenzione al razzismo antisemita con una certa costanza. Il primo si occupò della legislazione antiebraica in ogni numero della rivista omonima del suo movimento seguendo i molteplici aspetti della svolta razziale del 1938. Il secondo sul «Nuove Avanti!» sottolineò come i provvedimenti antiebraici determinassero la rottura del principio di eguaglianza dei cittadini. Cominciata con gli antifascisti, l’esclusione dei «reprobi» dal corpo «sano» della nazione si estendeva agli ebrei e minacciava di colpire altri gruppi di italiani, mostrando la potenza del regime totalitario. Nessun diversivo per la classe operaia, nessuna realtà sovrastrutturale: l’antisemitismo di Stato seguiva lo «sterminio di diecine di migliaia di abissini» e derivava dalla volontà di Mussolini di eliminare gli ebrei. Tuttavia, nel domandarsi quali fossero le cause e la natura di questo fenomeno, inedito in un Paese che non aveva un passato antisemita paragonabile a quello di altre nazioni europee, anche se l’antisemitismo di matrice cattolica era sempre esistito, gli stessi oppositori riformisti del fascismo restarono all’interno della tradizione politica di cui erano i rappresentanti. Proponendo un’interpretazione che avrebbe avuto ampia fortuna nel dopoguerra, quella secondo cui il regime non aveva prodotto una sua cultura, gli esponenti della sinistra riformista leggevano le persecuzioni antiebraiche come una delle espressioni della barbarie fascista, senza interrogarsi sulla sua specificità. Da parte sua, Carlo Rosselli era convinto che il fascismo esprimesse i vizi profondi, le debolezze latenti, le miserie del popolo italiano. A suo avviso, ma su questo l’accordo con il mondo della sinistra non comunista era totale, si trattava di un fenomeno regressivo: la prova dell’incapacità degli italiani di diventare moderni, l’esito di uno sviluppo economico e politico diverso da quello degli altri Paesi europei, il prodotto di un’Italia retorica, cattolica, arretrata, illiberale e piccolo borghese. E come sul fascismo non vi era molto da dire, anche sull’antisemitismo non vi fu dibattito: per i collaboratori di «Giustizia e Libertà», le leggi del 1938 costituivano una conferma del carattere violento del regime che imponeva il proprio dominio sugli italiani con il terrore, e che, quindi, era meritevole di condanna e disprezzo, ma non di analisi approfondite. Nessuno allora sostenne che l’Italia fosse un Paese razzista e antisemita; che il fascismo non fosse un fenomeno politico barbaro e reazionario, ma un esperimento moderno e totalitario; che moderna fosse la persecuzione degli ebrei, pericolosi perché considerati nemici della nazione, diversi da quell’italiano nuovo voluto dal regime mussoliniano, impegnato in una rivoluzione antropologica. Nel confinare l’antisemitismo di Stato alla classe dirigente, e nell’immaginare gli italiani brava gente, immune dal contagio razzista, la sinistra descrisse un Paese che, di fatto, non esisteva. All’indomani della Seconda guerra mondiale, e per i successivi quindici anni, sulle persecuzioni antisemite cadde il silenzio. O meglio, il silenzio proseguì da quel settembre del 1938 che cambiò la vita di cinquantamila nostri concittadini.
Alessandra Tarquini, Corriere La Lettura, 26 agosto 2018