Machshevet Israel – Appropriazioni religiose

massimo giulianiRoma, una domenica sera, verso la metà dello scorso mese di agosto. Me ne sto in casa con le finestre aperte e, in lontananza ma ben distinguibile all’orecchio, percepisco un motivo familiare: un gruppo di ragazzi e ragazze (non li vedo ma li sento) in via della Piramide Cestia sta cantando lo Shemah Israel, in ebraico, con la melodia in uso nella maggior parte delle sinagoghe del mondo. Non tutto, ben inteso: senza ve-ahavtà… e quel che segue; soltanto le sei parole che gli ebrei recitano coprendosi gli occhi. Dopo un attimo di sorpresa, realizzo che si tratta di un gruppo di Papa-boys (come dicono i giornalisti, riferendosi ai giovani che partecipano a eventi religiosi con il Papa) e, immagino, anche Papa-girls. Dopo una giornata al Circo Massimo sciamavano verso la metro di Piramide ancora cantando i tradizionali canti dei giovani cattolici, e, tra questi, anche il famoso versetto di Devarim/Dt 6 che sta alla base della fede ebraica. Che pensare? Dal momento che la Torà fa parte del (cosiddetto) Antico Testamento, perché no? Ma perché proprio in ebraico e con una melodia sinagogale? Quanti di loro capivano il significato delle parole che stavano cantando? Si rendevano conto che si trattava (si tratta) di una forma, l’ennesima, di espropriazione che il cristianesimo ha fatto (fa) di espressioni e forme di culto ebraico? E quanti erano consapevoli che con quelle parole sulle labbra molti ebrei ed ebree sono stati martirizzati, pur di rimanere fedeli al giudaismo, uccisi nel nome delle croce, nel Medioevo, o della purezza della razza, pochi decenni fa, ma sempre per mano di uomini battezzati e in terre di antica civilizzazione cristiana?
Mi sono venuti alla mente i giudizi ambivalenti di Maimonide e quelli, un poco più positivi, del Meiri sul cristianesimo come propedeutica all’epoca messianica. Ma anche i giudizi assai più severi del rabbino contemporaneo Eliezer Berkovits: “Il cristianesimo è oggi una fede tollerante perché questa è un’epoca post-cristiana”. Quando hanno a che fare con le chiese, gli ebrei non possono dimenticare i sedici secoli di martirio ebraico nelle terre cristiane, scrive Berkovits nel suo libro Faith after the Holocaust (1973), e che i sei milioni di ebrei sterminati in Europa nel XX secolo sono il segno della bancarotta morale della civiltà cristiana. “Senza il disprezzo e l’odio per l’ebreo innestato dal cristianesimo nel cuore di una moltitudine di suoi seguaci, il nazismo non avrebbe mai concepito e men che meno attuato un tale crimine contro il popolo ebraico”. Questo maestro è molto duro anche nei confronti del dialogo religioso tra ebrei e cristiani, sebbene, dice, conoscere le opere di Barth e Tillich, di Maritain e Gabriel – non meno che di Sartre e Radhakrishnan – non sia specificamente dialogo ebraico-cristiano ma un normale interscambio di idee, che va certamente perseguito. Da un punto di vista teologico, invece, “nel cristianesimo non vi è nulla che sia utile agli ebrei: quel che nella fede cristiana è accettabile per gli ebrei è ciò che viene preso in prestito dal giudaismo; essi non devono rivolgersi al Nuovo Testamento per trovare le due ‘leggi’: Gesù le citava dalla Bibbia ebraica, e ciò che non è ebraico nel cristianesimo non è accettabile per gli ebrei”.
Queste considerazioni vanno certamente contestualizzate nel dibattito tra ortodossi, conservative e riformati nordamericani degli anni Sessanta-Settanta; come pure quelle molto influenti di Rav Joseph B. Soloveitchik. Tuttavia esse ci ricordano che, nonostante dal 1973 ad oggi le chiese – soprattutto la cattolica – abbiano fatto una seria e profonda revisione del loro tradizionale anti-giudaismo e compiuto un teshuvà sincera, il conflitto teologico di fondo resta inalterato. Non credo che tale conflitto vada ‘risolto’ – si annullerebbero le diverse specificità – ma che vada compreso e re-interpretato invece in chiave di rispetto e di stima, senza appropriazioni indebite e senza secondi fini. Il dialogo cristiano-ebraico, oggi, non è che questo complesso percorso di conoscenza e di educazione alla diversità religiosa, estirpando tentazioni di fagocitamento o di conversionismo e a maggior ragione sentimenti di disprezzo o di odio. Rispettare ciò che appartiene specificamente alla prassi ebraica (preghiere, simboli come la menorà o il tallit, ecc.), non de-ebraicizzare le Scritture ebraiche e non pretendere che un ‘volemose bene’ annulli il peso della memoria… anche questo è parte essenziale di un autentico incontro dialogico tra le due fedi. Una recente rivisitazione cinematografica dei libri dei Maccabei (che sono nel canone cristiano ma non nel Tanakh), ad opera del regista Gianfranco Parolini, ad esempio, cade proprio in questo errore: de-ebraicizza il testo, svuotando di senso l’antico scontro ebraico con la cultura greca e persino mettendo sullo sfondo la figura di Giuda, ritratto come estremista e violento, e al centro il più pacifico fratello Simone… Ahinoi, proprio questo scambio di ruoli e il gioco dei nomi (che rimandano a un’altra storia) nasconde il peccato d’origine della cristianità: la sostituzione. Ecco un’altra occasione mancata.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI