Machshevet Israel – Le lingue che raccontano l’identità

Cosimo Nicolini CoenIl rapporto tra linguaggio e conoscenza nonché tra linguaggio e interiorità rimane oggetto di riflessione in diversi ambiti, da quello scientifico a quello letterario passando da quello filosofico. Se il linguaggio è essenziale per la comunicazione, svolgendo dunque la sua funzione strumentale, è nondimeno attraverso di esso che impariamo a descrivere la realtà e tramite questa operazione, direbbe il filosofo Carlo Sini, a costituire tanto le cose in quanto enti, tanto noi stessi in qualità di soggetti conoscenti. Alla funzione strumentale e a quella teoretica si possono poi aggiungere – con distinzioni su cui Wittgenstein iniziò a indagare – quelle della preghiera, dell’evocazione, della prescrizione e così via. In ognuna di queste funzioni il linguaggio costituisce un universo di senso che concerne azioni, emozioni, del locutore. Così Ben Yehuda era consapevole che la riaffermazione del popolo ebraico quale nazione doveva passare dalla rinascita dell’ebraico, a sua volta possibile solo con una sua interiorizzazione, fin dalla nascita, come lingua madre: lingua affettiva, e non solo strumento di comunicazione o studio. Così il suo primogenito diede il ‘la’ a quell’universo in ebraico (a quell’ “interiorità ebraica” per parafrasare il critico letterario Hirschfeld) che non smette di crescere. Condizione di possibilità della rivoluzione di Ben Yehuda è rappresentata da ciò che Ben Yehuda intendeva superare, ossia la centralità dell’ebraico in tutto ciò che concerneva l’ambito di Torah. Condizione di possibilità, perché l’ebraico svolgeva già la funzione costitutiva di senso e identità. Condizione da superare, poiché tale funzione era limitata alle materie di Torah – o tutt’al più alle imprese letterarie di pochi intellettuali. Al di fuori di ciò l’ebreo, la sua interiorità, i suoi sentimenti, si costituivano attraverso altre lingue, mettendo in evidenza il livello di integrazione – non superficiale, ma appunto intima – nei paesi della diaspora. A dimostrazione di quanto la lingua di un paese di ‘adozione’ potesse penetrare nell’interiorità dei locutori ebrei vi è il ladino, mantenuto da una parte dei discendenti degli esuli dalla Spagna del 1492. Così appresi che l’espressione con cui mia nonna a volte chiudeva i pasti “al porco e al judio dopo pranzo viene frio” proviene dal bagitto (Guido Bedaridda riporta: “el puerco y el judio… il mantello! Despuées comido han friooo!, in: Alessandro Orfano 2008) a mostrare, in una locuzione di evidente uso familiare, fortemente auto ironica, la resistenza del rapporto emotivo con Sfarad – o almeno le sue tracce. Se nella fase iniziale della sincronizzazione della rivoluzione linguistica con quella istituzionale del sionismo l’ebreo è tenuto parlare solo ebraico” [“Ivri, dabber ivrit”], oggi le cose sembrano andare un poco diversamente. Non perché vi sia un’interruzione di quel processo, al contrario. Proprio perché “l’interiorità in ebraico” è un dato acquisito, le giovani generazioni possono guardare alle lingue che formavano l’universo di senso e affettivo dei propri nonni. Così – in un frangente in cui in Israele si discute circa lo statuto da conferire all’ebraico e all’arabo – Omer e Tal, due studenti della Hebrew University che ho conosciuto di recente, tra loro diversi sotto molto rispetti (l’uno ha votato Livni, l’altro Bennet) e tuttavia accumunati da ascendenze mizrahi delle rispettive famiglie (marocchina dell’uno; marocchina e yemenita l’altro) recuperano l’arabo parlato dai loro immediati antenati. Senza particolari scopi, giusto per sentirsi a casa.

Cosimo Nicolini Coen