SOCIETÀ “Buonismo” e diritti da rispettare

campelliPoche parole del linguaggio politico e giornalistico hanno avuto in questi anni una fortuna paragonabile a «buonismo». Il dizionario Treccani la definisce come «ostentazione di buoni sentimenti e di tolleranza verso gli avversari». Il significato fondamentale è quindi quello dell’insincerità: posto – a quanto sembra – che non risulterebbe credibile avere atteggiamenti di tolleranza verso gli avversari, l’esibirne diventa immediatamente finzione, falsità ostentata. Questo è il primo elemento che caratterizza l’ideologia sottostante: poiché l’unico atteggiamento plausibile verso gli avversari che essa contempla è quello della sopraffazione, ogni pretesa di porsi altrimenti nei loro confronti – per esempio nei termini di un confronto magari duro ma rispettoso – è presentato come una irritante forma di menzogna e di inganno. Chi accusa di «buonismo» rivendica innanzitutto per sé il ruolo di chi dice con chiarezza la verità, a fronte degli infingimenti e dell’ipocrisia altrui. Nella pratica, poi, l’uso del termine è riservato a una riconoscibile categoria di soggetti sociali: si parla di «buonismo» in riferimento a temi che riguardano migranti, Rom, omosessuali, devianti e a persone portatrici di una qualche diversità culturale. Questa particolarità d’uso mostra una seconda funzione ideologica, quella cioè di identificare immediatamente questi gruppi appunto come avversari, rispetto ai quali non è credibile nutrire altro che sentimenti di ostilità. Questa seconda intenzione è quella di rinviare più o meno consapevolmente a una pratica di costruzione del nemico, in particolare di un nemico interno che con le sue richieste rallenta, ostacola, ritarda e mette in pericolo il bene «comune»: il semplice non essere in linea con la maggioranza culturale comporta in prospettiva il rischio di essere percepito da quest’ultima come nemico. In un interessante articolo di qualche tempo fa Giacomo Papi aveva osservato che la parola «buonismo» ha un precedente storico specifico nel termine «pietismo», che interessa in modo particolare i lettori di questo giornale. «Pietismo» era infatti l’accusa rivolta dopo la promulgazione delle leggi razziali contro chi esprimeva parole di comprensione verso gli ebrei, invece di esibire il previsto atteggiamento di avversione e discriminazione. Lo stesso articolo cita la circostanza che, ancora nel 1948 nell’Enciclopedia Treccani alla voce «Fascismo» si leggesse: «È altresì noto come il “pietismo” filosemitico fosse anche nei ranghi del partito, e fin nelle sommità (Balbo, per esempio), largamente diffuso». Peccato che questo salutare frammento di memoria storica sia poi immerso e snaturato con il riferimento al piano dei (buoni) sentimenti. Dunque, concludeva infatti Papi, «La parola buonismo non va abolita, va rivendicata. È il tentativo – la scelta – di provare a essere buoni e pietosi, sempre, verso gli innocenti come verso i colpevoli, verso gli ebrei deportati e i clandestini sbarcati, verso le rom trattate come animali dannosi…». È da questa conclusione che è necessario prendere le distanze. È certamente vero, infatti, che le parole non possono essere abolite, proprio come si è sempre mostrato inutile bruciare i libri nella pretesa di cancellare le idee che vi sono rappresentate. Ma in realtà il punto è un altro, e cioè che cose come «bontà», «pietà» e simili non c’entrano affatto nella discussione su questi temi, e vanno tenute rigorosamente lontane. L’ideologia che si nasconde dietro la sistematica accusa di «buonismo» rappresenta una innegabile, e per il momento solida, vittoria della destra culturale autoritaria e gerarchizzante. Ma questo soprattutto in ragione del fatto che essa costituisce il tentativo, in buona parte riuscito, di elidere dalla considerazione pubblica l’universo dei diritti, per sostituirvi un presunto spazio di discrezionalità orientato dalle emozioni. Al contrario, si danno diritti – umani e sociali, politici e civili – che vanno integralmente e laicamente rispettati per il solo fatto che rispondono a esigenze di equità, giustizia e universalismo. Non si tratta dunque, in nessuna misura, di chiamare in causa atteggiamenti di bontà e di pietà: ragioni in sé evidentemente di tutto rispetto, ma in questo contesto fuori luogo e a rischio di melensaggine. Non è per «bontà», e tantomeno per «buonismo», che è necessario mettere in campo certe pratiche – e contemporaneamente evitarne e sanzionarne altre – nei confronti di Rom, migranti, omosessuali e «diversi» in genere, che non sono tra l’altro necessariamente «nemici». È necessario farlo semplicemente perché certi diritti – il diritto alla ricerca di una vita migliore, alla dignità, al rispetto, alla realizzazione di sé – sono indiscutibili e vanno rispettati in quanto tali. Il quadro delle compatibilità complessive concorre evidentemente a indicare forme e limiti della fruizione di questi diritti, ma non va messo in discussione il fatto che essi costituiscono un nucleo irrinunciabile e non negoziabile, che come tale non è legato ai sentimenti e alle emozioni, al «buonismo» o al «rigorismo», insomma agli umori di chicchessia. I diritti costituiscono uno spazio di giustizia incomprimibile, del tutto indipendente dalla condiscendenza dei decisori politici. L’ideologia che si nasconde dietro alle ricorrenti – e per la verità spesso indecenti – accuse di buonismo è pura e semplice negazione della cultura dei diritti, ed in questo la sua insidia maggiore.

Enzo Campelli, sociologo
Pagine Ebraiche, settembre 2018