FILOSOFIA Interrogarsi di fronte al perdono
Martha Nussbaum / RABBIA E PERDONO LA GENEROSITÀ COME GIUSTIZIA / Il Mulino
Nei giorni in cui siamo chiamati a guardare, con maggiore attenzione e intensità, alle nostre azioni (e omissioni di azioni) per renderne conto prima di fronte agli altri e, quindi, di fronte al “Giudice di tutta la terra” (Genesi; 18, 25), può sorgere spontaneo passare dall’interrogativo ‘in cosa consiste la mia teshuvà?’ a ‘in cosa consiste la teshuvà?’ per approdare a quello, più strutturale, ‘in cosa consiste il pentimento e il perdono? Quali concetti rappresentano queste azioni e che ruolo hanno nelle nostre relazioni?’. Che poi, in un’ottica simpatetica con la Tradizione, l’aspetto speculativo sia “grande perché porta all’azione” – e che dunque quest’ultimo interrogativo sia propedeutico a meglio compiere la propria tehsuvà – o che, viceversa, sia interrogare fine a se stesso, è scelta che concerne il singolo. Come che sia può essere interessante confrontarsi con l’analisi condotta da Martha Nussbaum in Rabbia e perdono La generosità come giustizia (il Mulino, 2017). Sulla scorta di Nietzsche, Nussbaum si ripropone di mettere a punto una genealogia del concetto di perdono al fine di comprenderne il ruolo nel consesso civile e, specificatamente nell’ambito normativo. Prendendo le mosse dall’Orestea di Eschilo, passando dalle norme sulla Teshuvà [Hilkhot Teshuvà] di Maimonide, sino alle esperienze di Gandhi, Martin Luther King e Nelson Mandela, il volume affronta alcune delle declinazioni del concetto di perdono – presente in ciascuna di esse e tuttavia mai esaurito da nessuna. In effetti, per individuare il quid di ciò che definiamo perdono, è forse necessario guardare alle pagine in cui l’Autrice mette a fuoco – con un solido e critico riferimento allo stoicismo – l’esperienza del perdono nella vita quotidiana, quale necessario antidoto a un risentimento che, ancorché eventualmente giustificato, si rivelerebbe fagocitante. Nussbaum individua nella volontà di ritorsione tanto un “istinto […] profondamente umano” quanto un sentimento “normativamente problematico”, lesivo della collettività, in quanto getta quest’ultima nel vortice della faida creando le condizioni di possibilità per un eventuale conflitto civile (pp. 62-63). È per contrastare questa deriva che le diverse civiltà hanno costituito dispositivi istituzionali quali tribunali, processi e sistemi penali, atti a sgravare il privato dall’onere e dal “desiderio di punire da soli il colpevole” (p. 245). Proprio questo passaggio – dalla vendetta del privato alla giustizia istituzionale – è rappresentato dall’episodio delle Erinni ancorché, proprio parlando della Grecia classica Nussubam, scriva che ancora troppo spazio veniva lasciato al privato nonché, all’interno delle istituzioni stesse, al “sentimento retributivo”. In tal senso comprendiamo come il passaggio dal privato al pubblico nella gestione dei torti – dalla vendetta ai tribunali – non implichi di per sé il superamento dell’“istinto di ritorsione” che, pur trasformato, continuerebbe ad agire nel principio retributivo. In effetti tanto nell’istinto di ritorsione quanto nel principio retributivo la giustizia sarebbe concepita quale riparazione del passato attraverso un risarcimento proporzionale al danno subito. Ma il passato non può essere cambiato (“il sangue versato non si recupera”, p. 253) e la giustizia può compiersi solo concentrando la propria attenzione sul futuro, in un’ottica “di deterrenza piuttosto che di rivalsa”. È per questa ragione che Nussbaum individua nel perdono un sentimento normativamente consono. Sia in qualità di sentimento che alberga – auspicabilmente – nel singolo, sia quale sentimento che guida l’istituzione pubblica. Nel primo caso perché attraverso di esso il singolo si sgraverebbe della responsabilità di carattere penale, ora affidata all’istituzione. Nel secondo caso perché un’istituzione emancipata dal principio retributivo è la sola in grado di distinguere tra persona e atto (p. 298), dando così alla prima la possibilità di redimersi da quanto compiuto. Ma a quali condizioni, tanto nella sfera individuale quanto in quella istituzionale, può esistere qualcosa come il perdono? Nussbaum distingue tra perdono “condizionato” e “incondizionato” individuando nell’ultimo una risorsa emotiva al confine con la generosità e l’amore gratuiti; nel primo una forma “inquisitoria” o, con Nietzsche, una “vendicatività rimossa”. Nel perdono “condizionato” si annoverano le concezioni di perdono egemoni nel monoteismo ebraico (che, ricorderà l’Autrice, sono lungi dall’essere le uniche). Si sarebbe fuori luogo se si pensasse che, in tal modo, Nussbaum riproponga l’antica contrapposizione tra il Dio neotestamentario dell’amore e del perdono e quello ebraico della vendetta. È invero tutta la concezione monoteistica di perdono ad essere definita quale esemplificazione di “perdono condizionato”. Laddove il giudizio datone da Nussbaum è correlato possibile ma non necessario di tale definizione, nella misura in cui la si può pacificamente accogliere argomentando a favore dell’opinione che il perdono condizionato sia forma consona alla gestione dei rapporti intersoggettivi. Dunque cosa si intende con perdono condizionato? E perché la teshuvà (limitandoci al solo ebraismo) sarebbe da definire così? Dirimente è il rapporto tra Dio e gli uomini ove il perdono è concesso da Dio nella misura in cui il popolo/il singolo abbia riconosciuto le proprie trasgressioni e intrapreso quel percorso che definiamo di teshuvà. È da questa matrice, scrive l’Autrice, che deriva la teshuvà –e quindi il perdono – propria ai rapporti intersoggettivi ove, in modo ancor più evidente che nel primo caso, il dovere incombe anzitutto su chi ha commesso la trasgressione. È questi che deve recarsi presso colui a cui ha causato offesa, o danno, per rivolgergli le proprie scuse. Nussbaum mette in evidenza come il perdono sia valore fondamentale nell’ebraismo – Maimonide parla, sulla base di Levitico 19, 18, del divieto di vendetta e rancore. Il punto è che di dovere si tratta: dovere di pentirsi e di chiedere scusa e, se le condizioni procedurali relative sono adempiute, dovere – da parte dell’offeso – di perdonare. Dunque, scrive la filosofa, non vi è “nessuno spazio” a “spontaneità e passione” ed anzi “la generosità preventiva” sarebbe “un errore” (pp. 104-106). Diversamente “perdono incondizionato” è quello che non si basa su un ‘dovere’, né da parte di chi offende (e quindi trasgredisce) né da parte di chi è offeso. È questa dimensione, dove il perdono è scelta gratuita, a essere riconosciuta da Nussbaum quale funzionale non solo a una migliore gestione dei rapporti intersoggettivi – in quanto antitetica a ogni rabbia residuale, come a suo giudizio testimonia l’esperienza di Mandela – ma anche, come si diceva, quale sfondo emotivo propedeutico a un sistema penale che non si culli nell’ideale riparativo e che, viceversa, sappia “guardare al futuro” incarnando non solo l’“amore per la giustizia, ma anche uno spirito di generosità che va oltre lo stretto legalismo” (p. 254). A partire da quest’ultimo spunto è possibile segnalare, al di là dell’analisi di Nussbaum, la centralità, nella concezione ebraica della giustizia, dell’equilibrio tra din e hesed, tra giudizio rigoroso e grazia illimitata – quali attributi divini. Equilibrio che ha forse delle ricadute nella nozione di perdono nella misura in cui siamo chiamati a imitare, nei nostri atti e intenzioni, i due menzionati attributi. In effetti l’equilibrio tra din e hesed mette in luce come la necessità di andare “oltre lo stretto legalismo” sia esigenza recepita ed elaborata dal pensiero ebraico, che tuttavia concepisce questo “oltre” non già come abolizione della norma bensì come suo ideale completamento. Diversamente Nussbaum individua nell’esistenza, all’interno della Tradizione, di elementi che esulano dal condizionamento procedurale, tendenze dissidenti, in controcorrente. Come che sia l’analisi di Nussbaum permette, tra le altre cose, di focalizzare l’attenzione sul ruolo del ‘dovere’ nelle nostre relazioni intersoggettive, interrogandone ragion d’essere e limiti. È lecito riconoscere nel perdono condizionato una forma prescrittiva e, viceversa, in quello incondizionato un libero afflato di tipo emotivo? O anche in quest’ultimo agisce un’ideale di umanità, una forma di intima obbligazione ed esortazione, che influisce sulla percezione di noi stessi e degli altri?
Cosimo Nicolini Coen