L’esempio di Riace
La Calabria per secoli è stata terra di arrivo per molti popoli dai greci sino agli albanesi, agli ebrei, e agli occitani, e terra di partenza per molti calabresi che sono migrati al nord, nelle americhe o in Australia. Secondo numerose teorie linguistiche la Calabria ha dato origine al nome Italia, i greci difatti indicavano con questo nome soltanto l’area meridionale calabrese – gli stessi itali o vituli erano una popolazione calabra. La Calabria rimane oggi una delle regioni più remote e desolate della penisola: i collegamenti sono scarsi, il paesaggio ricorda anche nella contemporaneità l’altra costa al di là delle ionio, i borghi sparsi tra mare e montagna sono vittime dello spopolamento, della speculazione edilizia e della criminalità organizzata. Per arginare questi fenomeni, alcuni comuni ionici come Riace, Camini o Stignano – dove mi trovo attualmente – hanno sperimentato negli ultimi decenni nuovi modelli di rinascita e sviluppo che hanno inevitabilmente coinvolto le politiche dell’accoglienza dei migranti. Sono state rimesse a nuovo strade e case in rovina, salvate scuole che stavano per chiudere, aperte biblioteche e luoghi di incontro, realizzate attività e laboratori artigianali che offrono lavoro sia a locali che a nuovi arrivati. Camminando per le strade di questi paesi si sentono da parte degli abitanti discorsi opposti a quelli che normalmente si ascoltano in altri luoghi, sugli autobus o sui social network, dove l’immigrazione è avvertita esclusivamente come un pericolo e lo straniero come un invisore. Eppure il futuro di queste realtà, causa disinteresse generale e un’immotivata ostilità, è costantemente a rischio.
Francesco Moises Bassano
(7 settembre 2018)