Machshevet Israel – La tenda di Abramo, cifra dell’accoglienza

massimo giulianiVi sono parole e concetti il cui significato si trasforma e si arricchisce in base a certi eventi e certe situazioni storiche. Si consideri il concetto di ‘resistenza’. Da mero concetto fisico-chimico, esprimibile anche in formule matematiche, essa è divenuta una potente metafora morale nel contesto delle etiche religiose (resistere alla tentazione, al male), e oggi, a partire dall’esplosione dei totalitarismi del XX secolo, è sinonimo di lotta per certi diritti e di opposizione a ciò che lede la dignità e la libertà umane, un’autentica virtù sociale e politica, non importa da che parte o in nome di quali valori venga fatta. Ai nostri giorni un’altra parola, un altro concetto sta evolvendo uscendo dalla sfera privata, direi quasi dal galateo domentico, per assurgere similmente a virtù sociale e politica: è la parola ‘accoglienza’. Il fenomeno dei flussi migratori ha creato, negli ultimi decenni, una crisi identitaria che ha posto tale parola e prassi al centro del dibattito pubblico-istituzionale, a tutti i livelli e in ogni angolo del pianeta. Ma di che valore si tratta? Possiamo dirlo sinonimo di ‘ospitalità’? Dal concetto di ospitare molte lingue, anche l’ebraico, derivano nomi di luoghi centrali della nostra vita sociale: ospedale, ospizio, ostello (cioè hotel). In ebraico ospitalità si dice haknasat orchim e indica l’azione di far entrare qualcuno – gli ospiti, appunto – dove? Nelle nostre tende, nelle case del nostro clan. E’ un’immagine presa dalla vita dei nomadi e dei pastori, che usavano spostarsi e attraversare terre aride e deserte. L’ospitalità, per le antiche civiltà semitiche, era un dovere sacro perché senza riceverla/offrirla si rischiava la morte: era dunque un valore vitale, un obbligo di tutti verso tutti, in quanto accomunati dalla condizione di nomadi e viandanti.
Simbolo di questi luoghi di accoglienza erano i caravanserragli, residui dei quali (purtroppo turisticizzati) sono ancora qua e là visibili nel contesto della vita beduina in alcune zone del Neghev, in Israele. Nel medioevo si chiamavano non a caso ospizi o ospitali, soprattutto quando esplose il fenomeno dei pellegrinaggi. Non stupisce che il midrash, in quanto forma specificamente ebraica di pensiero, abbia immaginato la tenda di Avraham avinu come aperta su tutti lati, sì che ad essa si potesse accedere da ogni latitudine e provenienza geografica; né sorprende l’enfasi che la tradizione rabbinica ha dato al gesto del patriarca di uscire lui stesso in cerca di ospiti e di correre nell’affrettarsi a servirli, nonostante fosse sofferente per la propria circoncisione. Anzi, la circoncisione diventa a sua volta un simbolo di ospitalità: milà come tzimtzum, come ritrarsi, far spazio, uscire-verso (e l’episodio biblico precede infatti l’intercessione per una città di peccatori).
‘Accoglienza’ in ebraico, ancor più forte del termine ospitalità, si dice qabbalat panim ossia il ricevimento dei volti. E dire ‘volti’, al plurale, significa dire esseri umani unici e irrepetibili, storie, affetti, legami parentali e filiali, apertura sul futuro. Non è un caso che i primi a dare l’allarme sull’emergenza sociale e culturale che si stava profilando in Europa, già negli anni Settanta, siano stati alcuni filosofi ebrei: Emmanuel Levinas, Edmond Jabès e Jacques Derrida, tutti immigrati – o meglio, emigranti dalle loro terre native, in fuga da persecuzioni, in esilio dall’esilio – che hanno elevato la condizione di straniero-nomade-ospite a cifra della condizione umana nella seconda metà del Novecento. Levinas veniva da Kovno, in Lituania; Jabès fuggì dall’Egitto nel 1957 (durante la crisi del Canale di Suez); Derrida era nato ad Algeri (dove subì l’espulsione dalle scuole decretata per gli ebrei del governo di Vichy): trovarono accoglienza e ospitalità in Francia, a Parigi, già patria di elezione di molti ebrei dell’Europa orientale, come Lev Sestov, al punto da essere chiamata la Gerusalemme sulla Senna. Il loro pensiero, nondimeno, pone quesiti scomodi là dove ricorda l’ambivalenza semantica del termine: ‘ospite’ è chi accoglie o chi viene accolto? “L’ospite che accoglie e che si crede proprietario, in realtà, è – dice Derrida riflettendo sull’eredità spirituale di Levinas – un ospite ricevuto nella propria casa: egli riceve l’ospitalità che offre nella propria casa che, in fondo, non gli appartiene”. “L’invitante è invitato dal suo invitato; colui che riceve è ricevuto”. L’ultima opera pubblicata da Jabès prima di morire si intitola Le livre de l’hospitalité. Vi si legge: “La distanza che ci separa da uno straniero è la distanza che ci separa da noi stessi”. Secondo il midrash, Dio chiama Se stesso gher, straniero: anochì gher ba-aretz (Salmi 118,19). Ancora Jabès: “Escludere significa, in qualche misura, escludersi”. Poesia? Mera filosofia? Per chi cammina rasoterra, basti allora l’halakhà: “Lo sforzo di salvare una vita umana sospende e sostituisce tutti i comandamenti, sia positivi sia negativi, ad eccezione dei divieti d’idolatria, di assassinio e delle trasgressioni sessuali gravi. Quando la vita di una persona è in pericolo non si deve perdere tempo in lunghe discussioni; bisogna piuttosto immediatamente adoperarsi per salvare quella vita” (rav Adin Steinsaltz).

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI