SOCIETÀ Esercizi di Memoria

Walter_BenjaminVorrei proporre un esercizio di memoria. Voglio giocare a carte scoperte e perciò dichiaro in apertura la logica che seguirò. Si articola in tre postulati. Postulato n. 1: Senza memoria, non c’è futuro. Vero, ma anche improprio. Perché senza memoria, forse di futuro ce n’è un altro. Di solito terribile. O almeno così è per chi assume la memoria come un grimaldello e uno stimolo per pensare futuro. Postulato n. 2: La memoria non è solo un cumulo di fatti del passato. La memoria si sceglie, non si eredita (e anche quando si eredita ancora si sceglie). In conseguenza di ciò che si sceglie ci si costruisce un’idea di passato e una memoria del passato che riteniamo abbia valore per tentare di disegnare un futuro. Postulato n. 3: Il punto di partenza è sempre il presente. Meglio «le rime» che riteniamo di individuare nel presente, verso il passato, in funzione di un futuro che ci presentiamo come possibile (da conseguire, o da evitare). Propongo un esercizio di memoria sulla base di questa sequenza: Uomo in fuga, confine, timore di essere respinto, disperazione, suicido. Sequenza molte volte accaduta nella storia – passata e anche recente. Il Novecento ne è pieno. La sequenza più che un prototipo è un archetipo e ha la sua scena-madre a Portbou nel settembre 1940. Quella scena ha anche un protagonista, noto: Walter Benjamin. È una scena narrata varie volte, ma che conviene riprendere. Prima però, è bene ricordare un dato: Walter Benjamin non giunge a quella linea di frontiera avendo alle spalle una storia di successo (che Benjamin peraltro non conobbe mai in vita). Quella è l’ultima sequenza di un lungometraggio, che dura ormai da almeno sette anni (ovvero dal 19 marzo 1933, il giorno in cui egli in fuga da Berlino giunge a Parigi). Il 20 marzo 1933 scrive al suo amico Gershom Scholem: “Il terrore contro ogni atteggiamento o forma di espressione che non si adeguino incondizionatamente a quelli ufficiali ha raggiunto [in Germania] una misura praticamente insuperabile. In queste circostanze l’estremo riserbo politico che avevo sempre praticato, e per buoni motivi, mi può sì difendere dalla persecuzione programmatica, non dalla fame”. La storia successiva dimostra che comunque la “persecuzione programmatica”, come la denomina, non lo avrebbe comunque risparmiato. Quella condizione non lo abbandonerà mai negli anni successivi, come hanno ricordato i molti che hanno testimoniato del suo ultimo percorso, lungo i Pirenei, verso quella frontiera che poi non riesce comunque a passare, dando forma a una morte che molte volte si è ripetuta da allora: una persona in fuga che arriva a una frontiera che rimane e il cui destino è rimanere in una terra di nessuno. Più spesso di morire in quella terra di nessuno. Proviamo a fare un fermo di quel momento. Il 25 settembre 1940, Walter Benjamin, in fuga dai nazisti e nel tentativo di emigrare in America, giunge a Portbou, luogo di passaggio alla frontiera franco-spagnola. Benjamin, pur essendo cardiopatico, accetta con un piccolo gruppo di persone nella sua stessa condizione di percorrere il sentiero attraverso le montagne per raggiungere la frontiera spagnola. Ma quel giorno la Spagna aveva chiuso il suo confine e il gruppo deve tornare indietro. Viene offerta una dilazione di un giorno e nella notte Benjamin, la notte del 25 settembre, ingerisce la morfina che ha con sé e muore. È la sera del 26 settembre. Quella stessa notte arriva il consenso all’ingresso in Spagna. Gli altri passano. La scena di Portbou chiama altre scene. Sono quelle degli “uomini in fuga” del nostro tempo. A Portbou convergono molte scene che costituiscono la genealogia di quell’istante. Sono quelle specifiche della vita materiale e concreta di Walter Benjamin; quelle di chi condivide con lui la condizione di prigioniero, improvvisamente privato di ogni diritto e che non riesce più a comprendere dove si collochino la linea dell’amicizia, quella della lealtà, quella della dignità di sé. Una condizione e una situazione che chiamano in causa molte cose tra cui due essenzialmente: la propria fragilità, lo spessore civile della società e del sistema politico che reclude. È così diversa la scena nella nostra quotidianità? Dove fa e dove non fa le rime con la scena di Portbou?

David Bidussa, Pagine Ebraiche, settembre 2018